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SPECIALE ACQUA
ACQUA > SPECIALE ACQUA > LA POLITICA DELL'ACQUA > IL QUADRO ITALIANO
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La politica dell'acqua

Il Quadro italiano



La normativa italiana in tema acque è stata, fino all'emanazione del decreto legislativo 152/99, sostanzialmente articolata in base a quattro disposizioni legislative:

- regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775;
- legge 10 maggio 1976, n. 319 (cosiddetta legge Merli);
- legge 18 maggio 1989, n. 183 (legge sulla difesa del suolo);
- legge 5 gennaio 1994, n. 36 (cosiddetta legge Galli).

Il regio decreto 1775/1933 rappresenta ancora un atto importante della normativa sugli utilizzi. Gli aggiornamenti successivi (in particolare il decreto legislativo 275/1993 e la legge 36/1994) hanno cercato di adeguare i principi che lo caratterizzavano alla situazione attuale.

Al regio decreto 1775/1933 va riconosciuto l'importante merito di aver iniziato ad affermare il principio di natura pubblica delle acque e della necessità dell'intervento della Pubblica amministrazione nel regolare le concessioni in modo da garantire gli interessi collettivi. D'altra parte, però, rimaneva ancorato a una visione delle acque intese come risorsa illimitata da cui difendersi e, allo stesso tempo, da sfruttare attraverso la realizzazione di infrastrutture e di condizioni giuridiche adeguate. Non era infatti pensato in relazione alla tutela della risorsa; ad esempio, per quanto riguarda la struttura tariffaria (che è tuttora vigente) non si tiene alcun conto né della necessità di risparmiare l'acqua, né di restituirla non inquinata.


La legge 36/1994, sulla gestione della risorsa idrica, oltre a stabilire alcuni importanti principi generali (ad esempio quelle che "tutte le acque sono pubbliche", anche quelle sotterranee), definisce i criteri per l'organizzazione delle strutture per la gestione delle acque, considerandone in modo integrato l'intero ciclo, dall'approvvigionamento alla depurazione.

I cardini di questa legge possono così essere riassunti:

- la gestione delle infrastrutture che riguardano le acque (acquedotti, fognature, depuratori) deve essere ricondotta a unitarietà di gestione a livello di ambiti territoriali ottimali;

- tendenzialmente tale gestione deve mirare alla copertura integrale dei costi tramite l'applicazione di una tariffa.

Scarsità d'acqua a Rovigo

Ma la legge 36/1994 non solo è ancora largamente inapplicata da parte delle Regioni (ricordo che ancora oggi esistono oltre 10.000 enti che gestiscono fognature, acquedotti e depuratori, mentre quasi nessun ambito territoriale è operativo), ma necessita anche di una seria riflessione sulle caratteristiche tanto del sistema tariffario che del sistema economico previsto. Si tratta infatti di discutere, alla luce dell'attuale impostazione che mira a privatizzare completamente l'intero servizio, quali debbano essere gli strumenti per garantire che il mercato dell'acqua e gli interessi di chi lo gestisce non siano gli unici fattori che determinano la politica sulle acque.
Per quanto riguarda il sistema tariffario, dovrà essere oggetto di una approfondita discussione quali siano i costi che possono rientrare nella determinazione della tariffa. Ad esempio, si può affermare che, per la sua struttura attuale, la tariffa non è uno strumento che premia i comportamenti positivi nei confronti della risorsa, quali il risparmio o l'uso più razionale.
Inoltre, sempre semplificando, si può affermare che il gestore di un servizio idrico non ha alcuna convenienza né a far diminuire i consumi idrici, né a eseguire e gestire azioni di prevenzione dell'inquinamento. Al contrario, infatti, se vuole "guadagnare" deve incentivare i consumi, soprattutto nel caso di reti acquedottistiche già ammortizzate, mentre non ha particolare interesse a fare grandi interventi di manutenzione straordinaria (a meno che questi non vengano ben ricompensati nella tariffa) o importanti interventi di prevenzione per salvaguardare la risorsa.

Non si può neppure nascondere il fatto che nessuna legge di protezione delle risorse idriche può funzionare efficacemente se i canoni per le concessioni rimangono improntati alla stessa filosofia di cui al Rd 1775/1933, pur con le modifiche successive. Va infatti ricordato che mentre alcuni usi, come quello industriale, hanno subito consistenti aumenti (pur se ancora insufficienti a incentivare il risparmio e il riutilizzo di acque già usate), il costo per l'uso idroelettrico è rimasto sostanzialmente immutato e l'uso agricolo ha, in sostanza, beneficiato di una consistente diminuzione del canone. Infatti, se si rapportano i prezzi del 1993 al valore odierno della lira, si scopre che i prezzi attuali sono circa quattro volte inferiori.
Non si può infine dimenticare che l'acqua, come bene primario indispensabile per gli usi potabili, deve poter contemplare sistemi tariffari che proteggano le fasce sociali più deboli.

La legge 183/1989, sulla difesa del suolo, si occupa in particolare della pianificazione dei bacini idrografici, per quanto riguarda sia la qualità sia la quantità. Purtroppo, a otto anni dalla sua emanazione, la 183 non ha ancora dato frutti positivi, soprattutto a causa di una debole struttura amministrativa da un lato e di un non risolto scontro istituzionale tra necessità di coordinamento sovraregionale e giustificate preoccupazioni federaliste dall'altro.

La legge 319/1976, sulla tutela delle acque dall'inquinamento, ha disciplinato gli scarichi industriali e demandato la regolamentazione degli scarichi civili e delle fognature alle Regioni, senza però toccare direttamente il tema della quantità (oggi questa legge è sostituita dal decreto legislativo 152/99 sulla tutela delle acque dall'inquinamento).
L'integrazione di queste leggi avrebbe dovuto garantire un approccio completo al tema acque. Ma questo obiettivo è stato mancato, sia per la già accennata sostanziale inapplicazione di alcune norme (183/89 e 36/94), sia per la mancata volontà di arrivare a una visione integrata dei problemi.

Bisogna inoltre aggiungere che mentre, pur con i limiti della legge 319/76, il controllo degli scarichi industriali ha dato discreti risultati, rimane ancora lontana la soluzione del problema legato alla depurazione degli scarichi delle città. Infatti, meno del 70 per cento dei centri urbani è dotato di sistemi di depurazione e la maggior parte degli impianti esistenti, al di là del loro buono o cattivo funzionamento, non è tecnologicamente adeguata alle necessità depurative, soprattutto alla luce dei limiti indicati dalla direttiva 91/271 Cee. Si aggiunga poi il grave problema relativo alla quasi totale mancanza di depurazione di alcune importanti città come Milano e Firenze.

È evidente come tutto ciò abbia finora impedito l'impostazione di una politica efficace per la difesa della risorsa.

Il decreto 152/99

Il decreto 152/99, che ha recepito le due direttive comunitarie in materia di tutela e trattamento delle acque, ha anche messo in luce l'inadeguatezza del nostro sistema. Risultano al di sotto degli standard non solo la qualità ambientale della depurazione e delle infrastrutture, ma anche il livello di capacità tecniche e organizzative degli operatori, pubblici e privati.

Lo stato della risorsa
Sulla base dei dati del monitoraggio dei corpi idrici superficiali riportati nell'ultima Relazione sullo stato dell'ambiente (pubblicata dal Ministero all'ambiente nel 1997), si poteva ancora rilevare che oltre il 70 per cento delle acque superficiali versa in condizioni critiche, in particolare per la presenza di composti dell'azoto (nitrati e ammoniaca) e per la presenza di inquinamento microbiologico. Lo stesso vale per molte acque di falda usate per l'approvvigionamento idropotabile, che risentono dell'inquinamento di origine civile, industriale e agricola, presentando spesso valori vicini alla concentrazione massima ammissibile per l'uso potabile per diversi inquinanti (in particolare: nitrati, solventi clorurati, fitofarmaci).
Da dati più recenti (anche se ancora parziali), contenuti nella Relazione sullo stato dell'ambiente di prossima pubblicazione, è possibile rilevare un certo miglioramento della qualità delle acque superficiali. Ciò, probabilmente, grazie a due fattori: il miglioramento del sistema depurativo (pubblico e privato) di questi ultimi anni e una riduzione delle attività produttive più idro-inquinanti. Non è ancora possibile notare gli stessi miglioramenti per le acque sotterranee a causa della loro minore dinamica di ricambio.
Peraltro, vi sono zone del territorio nazionale dove la fragilità degli ecosistemi, in alcuni casi unita a una cattiva politica di prevenzione, ha determinato condizioni di grave emergenza (si pensi in proposito alla laguna di Venezia, e in genere a tutte le zone lagunari, o ad alcune aree come quelle del Sarno o del Lambro).


Non solo qualità,
ma anche disponibilità

Secondo i dati degli indicatori di pressione forniti dall'Ocse l'Italia ha, sotto molti aspetti, la maglia nera dell'Unione europea in quanto:

- siamo il Paese dell'Ue che preleva la più alta quantità d'acqua pro-capite di tutta la comunità: 980 m3/ab/anno, il doppio della Grecia e comunque più della Spagna (890) e della Francia (700);

- siamo al primo posto come prelievi per usi domestici (249 l/ab/giorno), molto più della Francia (156) o dell'Austria (162);

- siamo ai primi posti in Europa come rapporto tra acqua prelevata e disponibilità della risorsa (secondi con il 32 per cento dopo il Belgio);

- per quanto riguardo l'uso industriale, abbiamo uno dei peggiori indici di consumo di acque per unità di prodotto: in Europa con un metro cubo di acqua si producono mediamente beni per un valore di circa 96 euro; in Italia il valore è solo 41 euro/m3 contro circa 120 della Germania e 200 dell'Olanda;

- anche per quanto riguarda l'agricoltura, che nel nostro paese consuma tra il 50 e il 60 per cento di tutta l'acqua prelevata, le cose non vanno bene; siamo infatti uno dei paesi a più alto consumo di acqua per ettaro irrigato.

Non va poi dimenticato che, ancora oggi, molte zone d'Italia soffrono, soprattutto nei mesi estivi, di gravi carenze idriche. Nel sud oltre metà della popolazione non ha acqua sufficiente per almeno un trimestre all'anno. Ciò avviene non solo per un semplice problema di disponibilità, ma anche per un uso irrazionale e per cattiva gestione. Basti pensare agli usi impropri di risorse pregiate, in particolare per sistemi irrigui poco efficienti, o allo spreco derivante dalle perdite degli acquedotti, mediamente dell'ordine del 30 per cento con punte superiori al 50 (la media europea è intorno al 10 per cento).

Lo stato dell'arte
Con il dlgs 152/99 sono state finalmente recepite due direttive comunitarie (la 91/271/Cee e la 676/91 Cee) e si è compiuto un notevole sforzo di razionalizzazione e ammodernamento della normativa italiana in materia. Ma prima di soffermarmi sull'importanza di questi temi, mi preme accennare alcune considerazioni.
È opportuno sottolineare come il ritardo nel recepimento della direttiva 91/271/Cee sugli scarichi di acque reflue urbane e l'inadeguatezza della normativa esistente abbiano avuto ripercussioni non solo sulla qualità ambientale del sistema depurativo e infrastrutturale, non adeguato ai livelli richiesti dalla comunità, ma anche sul livello di capacità tecniche e organizzative dell'intero sistema, sia per quanto concerne gli operatori pubblici, sia per quelli privati.
Si è infatti determinata una situazione in cui, anche a causa del ritardo nell'applicazione della legge 36/94 sulla gestione dei servizi idrici, gli operatori italiani del settore non sono più in grado di competere agevolmente con gli operatori di altri paesi europei. Ciò è vero sia per quanto riguarda la capacità di partecipare (magari con qualche possibilità di successo) a gare d'appalto per la costruzione di grandi infrastrutture depurative o per la gestione del cosiddetto servizio idrico integrato, sia per quanto riguarda le capacità tecniche relative alla costruzione e fornitura di tecnologie per sistemi depurativi. Prova ne sia la vicenda di Arezzo, dove la prima, e finora unica, gara bandita in Italia per la gestione integrata del servizio idrico cittadino (così come definito dalla legge Galli) è stata vinta da una società francese.
Così, mentre negli anni '80 il nostro era un paese di punta in questo settore, oggi siamo una delle "cenerentole" dell'Unione europea. Da una relazione presentata in un convegno da Federgasacqua si rileva, ad esempio, una netta tendenza alla diminuzione, nel nostro paese, dei brevetti nel settore del trattamento delle acque rispetto a tendenze al rialzo in paesi tradizionalmente avanzati come Francia e Svezia, ma anche in paesi come la Spagna.
Per tornare al dlgs 152/99, il raggiungimento degli standard europei previsti per la depurazione è senzaltro molto impegnativo in termini di investimenti richiesti; un'indagine di Proaqua del 1995 stimava una necessità di circa 60.000 miliardi di lire entro il 2005. Un impegno che potrebbe comportare un importante rilancio occupazionale, con un aumento stimato di occupati pari a 2,5 unità per miliardo di investimento. Facendo quindi riferimento solamente alle spese di realizzazione necessarie, senza cioè prendere per ora in considerazione la gestione del sistema (gestione delle infrastrutture e del sistema di controllo), supponendo di riuscire a investire anche solo un terzo della quota stimata di 60.000 miliardi, si otterrebbe il risultato di dare nuova occupazione a 50.000 addetti.
In sostanza, la piena e corretta applicazione della nuova normativa non produrrà solo vantaggi ambientali, ma sarà un forte stimolo all'innovazione tecnologica nel settore e contemporaneamente un importante fattore di incremento occupazionale.


Acqua

La nuova normativa
Per concludere, è utile ricordare brevemente le caratteristiche più rilevanti della nuova legge, che sono principalmente due:

1. la tutela integrata degli aspetti quantitativi e qualitativi nell'ambito di ciascun bacino idrografico;

2. l'individuazione di obiettivi di qualità ambientale a cui fare riferimento per la definizione dei limiti allo scarico e la predisposizione di misure e interenti di risanamento.

Per quanto riguarda il primo punto, è utile sottolineare che le principali indicazioni contenute nel decreto legislativo 152/99 puntualizzano la necessità che i piani di tutela redatti dalle Regioni debbano contenere misure volte ad assicurare l'equilibrio tra la disponibilità della risorsa e i fabbisogni per i diversi usi, tenendo conto del minimo deflusso vitale, della capacità di ravvenamento della falda e della destinazione d'uso della risorsa compatibilmente con le relative caratteristiche qualitative e quantitative. Tali misure possono comprendere la revisione o la revoca delle concessioni esistenti, senza che ciò debba dar luogo a un risarcimento.
Sono, inoltre, indicate alcune modifiche al regio decreto 1775/33 atte a garantire un più razionale uso della risorsa attraverso:

- l'obbligo a utilizzare risorse più appropriate per i diversi usi (non serve acqua potabile per lavare le strade o irrigare i giardini o per altri usi che non richiedono particolari qualità); in particolare, l'utilizzo di risorse riservate all'uso potabile sarà concesso per usi diversi da quello potabile solo in caso di ampia disponibilità della risorsa o di accertata carenza di risorse idriche alternative di qualità accettabile per l'uso in questione; in tal caso il canone verrà comunque triplicato;

- la puntualizzazione di criteri per il rilascio delle concessioni;

- la definizione di sanzioni maggiori per prelievi non autorizzati.


Vengono, inoltre, date indicazioni alle Regioni e alle Province affinché vengano adottate norme per:

- migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione al fine di ridurre le perdite;
- prevedere la realizzazione di reti duali di adduzione al fine dell'utilizzo di acque meno pregiate per usi compatibili;

- disporre per le nuove costruzioni, e incentivare per gli edifici già esistenti, l'utilizzo di tecnologie di risparmio della risorsa;

- installare contatori per il consumo dell'acqua in ogni singola unità abitativa nonché contatori differenziati per le attività produttive e del settore terziario esercitate nel contesto urbano;

- prevedere sistemi di collettamento differenziati per le acque piovane e per le acque reflue;

- prevedere negli strumenti urbanistici, compatibilmente con l'assetto urbanistico e territoriale, reti duali al fine dell'utilizzo di acque meno pregiate, nonché tecnologie di risparmio della risorsa.


Il secondo punto è anch'esso di rilevante importanza, in quanto:

- l'impostazione della nuova legge sposta l'attenzione dal controllo del singolo scarico all'insieme degli eventi che determinano l'inquinamento del corpo idrico. Non è infatti sufficiente per la tutela del corpo idrico controllare se uno scarico rispetta le concentrazioni riportate in una tabella di emissione, ma bisogna garantire che l'insieme degli scarichi e delle altre attività antropiche, che insistono sullo stesso corpo idrico, non siano comunque tali da pregiudicare la qualità del medesimo. Infatti molti scarichi in regola, o anche un solo scarico con una grande portata, che si immettono in un corpo idrico possono comunque compromettere l'ecosistema;

- tale concetto permette e costringe a impostare l'azione di risanamento con una maggiore pianificazione e con una logica di prevenzione, avendo come riferimento precisi traguardi temporali di riduzione dei carichi inquinanti in relazione alle esigenze specifiche di ogni corpo idrico. Non è più sufficiente fare una lista di opere da realizzare (collettori, depuratori) ma è necessario pianificare l'insieme degli interventi necessari a raggiungere l'obiettivo che, essendo ben definito e misurabile, permette una verifica in termini di efficacia ed efficienza. Il tutto ricondotto in una logica integrata a livello di bacino idrografico.
I punti critici della nuova normativa sono sostanzialmente riconducibili, oltre al già accennato problema gestionale (vedi applicazione della legge 36/94), al tema mai seriamente affrontato della questione conoscitiva.

Infatti, senza un monitoraggio continuativo non possono essere classificati i corpi idrici, non possono essere fatti i piani di tutela, non possono essere stabiliti nuovi limiti da parte delle Regioni e non possono essere perseguiti gli obiettivi di qualità, così come invece il dlgs 152/99 prevede. In sostanza non può essere applicata la parte più importante della legge né, tantomeno, potranno essere affrontati seriamente i temi legati alla tutela quantitativa.
Per tali motivi, l'organizzazione e l'avvio di un efficiente sistema di controllo di qualità dei corpi idrici (oltre che degli scarichi) è uno degli obiettivi primari per poter arrivare alla prima classificazione dei copri idrici. Classificazione in base alla quale può partire la seconda fase dell'applicazione del dlgs 152/99: quella mirata al raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici.

di Riccardo Rifici

 
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