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Le notizie
dell'acqua
Sulle rive del
Giordano
Dove la
sete favorisce meravigliosamente
la concentrazione della mente
Nel bacino del fiume Giordano l'acqua
è come una coperta troppo corta:
praticamente ogni goccia consumata da una
delle quattro principali realtà politiche
che condividono le medesime fonti del prezioso
liquido, vale a dire Israele, Siria, Giordania
e i palestinesi, viene consumata a spese
di altri. "È molto semplice
- afferma un israeliano che partecipa alle
negoziazioni sull'acqua - Se cerco di soddisfare
i miei bisogni, la coperta risulterà
troppo corta per qualcun altro".
Le statistiche di Green Cross International
mettono completamente a nudo la questione.
Il limitato rifornimento idrico naturale
di Israele, Giordania e delle aree palestinesi
raggiunge una media annua di 2,7 miliardi
di metri cubi, provenienti da fiumi e falde
acquifere rinnovabili: diverse centinaia
di milioni di metri cubi in meno di quanta
se ne consuma. La popolazione totale, che
nel 1999 era di 14,4 milioni di abitanti,
nel 2040 potrebbe salire a 34 milioni, nel
qual caso la riserva pro capite scenderebbe
molto al di sotto dei 125 metri cubi necessari,
secondo Bertrand Charrier di Green Cross,
per sostenere "uno standard ragionevole
di vita civile" (e il calcolo non tiene
conto dell'impiego in agricoltura).
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Approvigionamento
d'acqua nel Negev
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Le
disastrose implicazioni di questi dati vanno
forse mitigate con la considerazione che
negli anni bui tra il 1996 e il 2000, quando
quattro dei cinque gruppi multilaterali
partecipanti alla conferenza di pace per
il Medio Oriente di Madrid nel 1991 sospesero
i contatti, il gruppo di lavoro sulle risorse
idriche continuò a lavorare. Solo
la prospettiva della siccità, a quanto
sembra, è capace di riunire le menti
e le volontà dei vicini più
ostili.
Già
ora la situazione è abbastanza grave. I siriani, che non hanno infrastrutture
capaci di spostare l'acqua del fiume Eufrate dalla parte orientale del paese verso
Damasco, chiudono i rubinetti dei 2 milioni di persone che vivono nella capitale
per diverse notti a settimana. La Giordania, se è possibile, sta anche
peggio. Le autocisterne verdi vendono acqua nei quartieri più ricchi di
Amman durante l'estate, quando non si può contare sulle risorse comunali;
le città più sperdute ricevono l'acqua una volta a settimana e l'anno
scorso la distribuzione nelle principali zone agricole a occidente del paese è
stata così esigua che i coltivatori hanno dovuto interrompere la semina.
Quanto all'Autorità palestinese, il consumo medio pro capite di acqua in
Cisgiordania è inferiore ai 50 metri cubi l'anno, un settimo di quello
dei paesi industrializzati. E in Israele le autorità sono state costrette
a abbassare la linea rossa al di sotto della quale non è possibile pompare
acqua dal mare di Galilea, principale riserva idrica del paese, e forse dovranno
imporre il razionamento prima dell'inizio della stagione delle piogge, in novembre
o dicembre.
Oltre alla siccità di questi due anni, la penuria
d'acqua si è aggravata a causa dell'inefficienza dei sistemi di fornitura
ed erogazione. Le perdite nelle tubature costano a Damasco il 30 per cento dell'acqua
che riesce a raggiungere la città e le perdite ad Amman e nella striscia
palestinese di Gaza si valutano in misura del 60 per cento; Israele sta sul 12
per cento, che è il livello della maggior parte degli Stati Uniti.
Un altro enorme
inghiottitoio di acqua è l'agricoltura. Israele vende l'acqua ai contadini
a circa 15 centesimi di dollaro al metro cubo, una frazione dei costi di pompaggio
e trasporto; alcuni stati arabi non esigono per l'acqua alcun tributo. "La
maniera più economica di importare acqua è importare cibo, che è
acqua virtuale" dice l'esperto idrico Hillel Shuval dell'Università
ebraica di Gerusalemme, aggiungendo che comunque meno del 20 per cento delle calorie
assunte in media dagli israeliani proviene dall'agricoltura interna. Ma suggerisce
che Israele riduca drasticamente l'assegnazione all'agricoltura, poco più
della metà del consumo annuo totale, circa 1,8 miliardi di metri cubi.
Altri israeliani sostengono che, anche in uno scenario di pace assoluta, il paese
deve poter contare su una sicurezza alimentare che solo grandi quantitativi di
acqua sono in grado di garantire.
A causa di questi problemi, assai comuni
nella regione, la condivisione dell'acqua sembrerebbe un autentico imperativo.
Ma la realtà è ben diversa. Tony Allan, capo del gruppo di studi
idrici presso la School of Oriental and African Studies (istituto di studi africani
e orientali) dell'università di Londra sostiene che la Siria ha messo in
atto "negli ultimi 30 anni un'aggressione sempre più brutale nei confronti
della Giordania, utilizzando in quantità sempre maggiori l'acqua del fiume
Yarmuk" che costituisce parte del confine tra i due paesi arabi. Le dighe
siriane nel tratto superiore dello Yarmuk, sostengono fonti di Israele, hanno
bloccato circa 200 milioni di metri cubi che potrebbero essere utilizzati a valle
dalla Giordania, la quale necessita attualmente di quasi un miliardo di metri
cubi l'anno.
Anche Israele dipende da acque che hanno origine fuori dei
suoi confini. I fiumi Banias e Hatzbani, che provengono dal territorio controllato
o reclamato dalla Siria, sono affluenti primari del bacino del Giordano; la Siria
ha inoltre indicato che nonostante il terzo affluente del Giordano, il Dan, nasca
in Israele, le sue acque provengono in realtà per via sotterranea dalla
Siria. E, ancora, il rifiuto da parte di Israele alla richiesta siriana che un
accordo di confine lasci a Damasco il controllo di una parte della costa nordorientale
del mare di Galilea (una delle principali ragioni del blocco dei colloqui di pace
avvenuto la scorsa primavera tra i due paesi) deriva in parte dal fatto che una
tale concessione darebbe alla Siria accesso e diritti legali sull'acqua del lago.
Le rivendicazioni sull'acqua sono state quasi trascurate al tavolo delle
trattative del summit israelo-palestinese di luglio a Camp David. Ma si tratta
di un conflitto potenzialmente esplosivo quasi quanto il dilemma su Gerusalemme.
I palestinesi dicono che la situazione attuale, in cui i coloni israeliani sguazzano
nelle loro piscine mentre a Hebron e Betlemme la popolazione muore di sete non
potrà continuare in pace. L'Autorità palestinese richiederà
che sia garantita una quantità d'acqua molto maggiore a quella che attualmente
ricevono da Israele la Cisgiordania e la striscia di Gaza.
Ma qualsiasi
maggiore richiesta di acqua da parte dei palestinesi si scontra con le esigenze
di Israele, che deve trovare 40 milioni di metri cubi l'anno per soddisfare le
esigenze di una popolazione che continua a espandersi. La pretesa dell'Autorità
palestinese, afferma una fonte israeliana che ha partecipato ai negoziati sull'acqua,
"è semplicemente non realistica. Se pensano che Israele accetterà
di patire la sete per soddisfare le loro richieste, faranno meglio a ripensarci".
Israele, continua la fonte, "ha compiuto grandi sforzi per utilizzare ogni
goccia d'acqua disponibile. Negli ultimi dieci anni abbiamo raddoppiato la produzione
agricola quasi con la stessa quantità di acqua".
I palestinesi
replicano: oggi l'agricoltura rappresenta meno del 3 per cento del prodotto interno
lordo di un paese industrializzato e ad alta tecnologia come Israele, ma gioca
un ruolo cruciale nell'economia palestinese. In uno scenario di pace, Israele
farebbe meglio a consentire ai palestinesi di aumentare la produzione agricola
incanalando le proprie risorse in iniziative finanziariamente più remunerative.
Benché Israele e Giordania abbiano definito un accordo importante
sulle risorse idriche nel quadro del trattato di pace del 1994, ci sono stati
ostacoli. Nell'estate del 1999 Israele ha annunciato che, a causa della siccità,
non avrebbe distribuito i 30 milioni di metri cubi di acqua stabiliti dal trattato,
poi cambiò decisione e concesse l'acqua. Ma l'atmosfera generale è
stata di collaborazione: una diga in calcestruzzo costruita in collaborazione
a Addasim, aumenta di circa il 10 per cento la portata del fiume Yarmuk nel regno
Ascemita.
Chi prevede una resa dei conti si basa sull'assunto che l'acqua
è un gioco "a somma zero", nel quale la fonte resta costante
oppure si contrae, mentre le esigenze continuano a crescere. Ma non è questa
l'unica prospettiva: è possibile "creare" altra acqua attraverso
diverse misure di salvaguardia ambientale, che comprendono la gestione dell'approvvigionamento
idrico e la realizzazione di sistemi più efficienti per il riciclaggio
delle acque di scarico; l'adozione di forme di irrigazione più efficaci;
la rinuncia a coltivazioni che richiedono una irrigazione intensiva, come il cotone,
gli avocado e gli agrumi; lo sfruttamento di nuove fonti, dalla dissalazione dell'acqua
marina o delle acque salmastre sotterranee all'importazione da paesi vicini e
ricchi di acqua; e soprattutto, il riconoscimento che un problema regionale richiede
soluzioni cooperative regionali.
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Il
lago di Tiberiade |
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Importazione:
la Turchia ha già costruito una stazione di pompaggio
da 100 milioni di dollari alla foce del fiume Managvat per riempire le cisterne
o enormi contenitori flessibili simili a quelli utilizzati per il trasporto in
mare dei carburanti durante la seconda guerra mondiale. Il problema sta nei costi:
circa 80 centesimi di dollaro a metro cubo. Anche se la Turchia si accontentasse
di 5 o 10 centesimi al metro cubo d'acqua, il costo complessivo di trasporto è
più elevato del costo di dissalazione dell'acqua marina, che ora è
sotto i 70 centesimi ed è destinato a scendere ancora. "È l'ultima
spiaggia" afferma un esperto in problemi idrici, Amikam Nachmani dell'università
di Bar-Ilan, ma presenta un vantaggio supplementare: si potrebbe utilizzare un
impianto israeliano come terminale per l'acqua turca da trasportare in cisterne
fino in Giordania, che ha chiesto ad Ankara informazioni sull'acqua del Managvat.
Dissalazione:
ai primi di luglio, il ministro delle finanze israeliano
ha emanato una regolare gara d'appalto per il più grande impianto di dissalazione
dell'acqua marina da costruire accanto a una nuova centrale elettrica ad Ashkelon,
sul Mediterraneo, a sud di Tel Aviv. Tra i probabili aggiudicatari ci sono tre
consorzi internazionali guidati da Ionics del Massachusetts, la più grande
azienda del settore, e due ditte francesi, Vivendi e Suez Lyonnaise des Eaux.
La centrale, che dissalerà 50 milioni di metri cubi di acqua marina l'anno,
richiederà diversi anni di costruzione prima di essere funzionante.
Wayne Owens, un ex-rappresentante dello Utah al Congresso, ha spinto per anni
l'opzione della dissalazione. Il libro bianco del novembre 1999 pubblicato dal
Center for Middle East Peace and Economic Cooperation di Owens, con sede a Washington,
considera la centrale di Ashkelon come la prima di una serie di impianti sul Mediterraneo
che riforniscano, oltre a Israele e i palestinesi, anche la Giordania. Si valuta
che il nuovo processo di dissalazione per osmosi inversa possa abbattere i costi
a circa 55 centesimi a metro cubo, molto meno rispetto al costo di 1,80 dollari
dei vecchi impianti termici dell'Arabia Saudita e della cittadina turistica israeliana
di Eilat sul Mar Rosso. Owens ha parlato con Yasser Arafat circa la costruzione
di un impianto a Gaza e dice che il leader palestinese sembra favorevole all'idea,
sempre che si trovino i fondi per realizzarla.
Condivisione delle
risorse:
se si raggiungesse la pace tra le parti interessate, un acquedotto
che parte dal Libano meridionale sarebbe un'altra straordinaria possibilità.
"Sarebbe relativamente facile costruire un tunnel dai fiumi Litani e Awali
a est fino ai fiumi Dan o Hatzbani nel bacino del Giordano a circa 10 chilometri
dal confine israeliano - dice Shuval - e acquistare l'acqua dai libanesi. Il tunnel
porterebbe nel bacino del Giordano 500 milioni di metri cubi di acqua all'anno".
È chiaro, inoltre, che uno sforzo massiccio di dissalazione consentirebbe
a Israele di essere più disponibile ad accordarsi con i palestinesi sulla
questione dell'acqua. Anche senza questo accordo, l'offerta del primo ministro
Ehud Barak di rinunciare a oltre il 90 per cento della Cisgiordania con un accordo
definitivo darebbe ai palestinesi il reale controllo su quella che è nota
come la falda di montagna sotto la Cisgiordania, una delle maggiori risorse idriche
sotterranee di Israele.
Cooperazione:
con i paesi occidentali,
il Giappone, la Corea e gli Stati Arabi del Nordafrica e del Golfo tutti coinvolti
in uno stesso progetto, gli esperti giordani, israeliani e palestinesi del gruppo
di lavoro sulle risorse idriche hanno assegnato notevoli fondi da impiegare in
ricerche e progetti che vanno dalla dissalazione a energia solare al collegamento
delle basi di dati giordana e israeliana (a cui i palestinesi hanno accesso) fino
al trattamento dei liquami, all'addestramento congiunto finanziato dall'America
di équipe di controllo della qualità dell'acqua separate, formate
da israeliani, giordani e palestinesi.
All'inizio del 1999 i giordani
hanno lanciato un appello, chiedendo urgentemente aiuto per l'individuazione di
una sorgente di contaminazione nell'acquedotto di Amman; Israele mandò
un laboratorio mobile e li aiutò a risolvere il problema. "Questo
tipo di cooperazione sarebbe stata impensabile anche solo tre o quattro anni fa",
dice un altro israeliano coinvolto sul piano politico nei lavori del gruppo di
lavoro sulle acque. "Non siamo più degli estranei". Certamente
non alle conferenze internazionali, dove le tre parti hanno presentato ricerche
e documenti congiunti. Gli esperti siriani stanno ai margini, in attesa che le
autorità del loro paese consentano loro di unirsi. Forse il segnale arriverà
dal nuovo presidente siriano Bashar Assad.
Ma la cooperazione tecnica
non basta. Le varie parti devono rinunciare a posizioni massimaliste e cominciare
a trovare più strade per risolvere i problemi comuni. Occorre forse che
Madre Natura ci sorprenda con un piccolo aiuto, la siccità continua o almeno
l'assenza di un ciclo umido prolungato, che ridurrebbero le motivazioni a non
trovare un accordo. Tony Allan e Amikam Nachmani sono concordi nel ritenere l'inverno
insolitamente umido del 1991-92 una tragedia culturale e psicologica. Come osserva
Nachmani "quale ministro delle finanze sano di mente non avrebbe detto: "Siete
pazzi? Volete che spenda centinaia di milioni di dollari quando le riserve idriche
e acquifere sono stracolme? Che accadrebbe se l'anno venturo avessimo un altro
inverno piovoso come questo?".
Così, anche se i politici,
i contadini e i comuni cittadini pregano e sperano in abbondanti piogge invernali,
c'è una ragione per essere cauti: una situazione troppo positiva potrebbe
danneggiare i progressi ottenuti in dieci anni per la soluzione di un problema
comune.
Hanan Sher
The Jerusalem
Post