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» CAMBIAMENTI CLIMATICI /////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////


FORESTA NEL DESERTO BATTE LA SICCITA'

Crescere una foresta nel deserto è possibile. Ci sono riusciti una squadra di scienziati dell’Università della Tuscia e dell’Università di Tel Aviv, grazie ad un progetto finanziato dal ministero dell’Ambiente. I ricercatori sono riusciti a creare in poco più di 18 mesi una foresta con alberi di altezza media di 5 metri nel pieno del deserto del Negev, irrigata con acqua di scarto. Qual è l’obiettivo della ricerca? Trovare nuovi strumenti di lotta alla desertificazione e sviluppare tecnologie in grado di sostenere i Paesi del Mediterraneo, a partire dalla cooperazione scientifica e tecnologica con Israele. Un problema, quello della desertificazione, che riguarda anche l’Italia, dove sono sette le regioni più a rischio: Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, che hanno già hanno stanziato più di 6,6 miliardi di euro per piani anti-siccità. In realtà, potenzialmente colpita risulta il 52% della superficie nazionale. Per questo come affrontare tale rischio è stato uno dei temi al centro della Conferenza Nazionale sui Cambiamenti Climatici che si è tenuta a settembre a Roma. Intanto la ricerca italo-israeliana dà i suoi frutti: “L’esperimento ha dimostrato come sia possibile anche nei deserti produrre in poco tempo quantità enormi di biomassa - spiega Riccardo Valentini, ecologo e direttore del dipartimento di Scienze dell’ambiente forestale e delle sue risorse dell’Università della Tuscia - sfruttando l’energia solare per la fotosintesi, largamente abbondante in questi luoghi, a patto di poter disporre di acqua, in questo caso salina o riciclata dalle città”. Perché è importante la biomassa? Perché è una fonte energetica alternativa al petrolio e quindi utile alla riduzione delle emissioni di gas serra, che diventa una risorsa fondamentale per regioni apparentemente sterili e ostili. Come ha funzionato il progetto? “Il deserto del Negev è una distesa arida di sabbia e roccia - racconta Valentini - che si estende per circa 13.000 km², quasi il 70% del territorio israeliano. Il progetto nasce con la scoperta di alcuni ecotipi di Tamerici, provenienti dalla regione del Mar Morto. Queste piante sono in grado di assorbire il sale in eccesso nel suolo e di trasportarlo fino alle foglie dove viene accumulato sotto forma di cristalli di sale, bonificando quindi il terreno”. L’area della sperimentazione dove sono state piantate le Tamerici è di 5 ettari, irrigate con acqua proveniente da pozzi di acqua salmastra, inutilizzabile sia come acqua potabile che per l’agricoltura. “Le piante sono alte più di 5 metri, formano un fitto bosco - spiega Valentini - e la biomassa è di circa 50 tonnellate per ettaro. Qui sono tornati a nidificare uccelli e piccoli mammiferi, creando un’oasi di verde circondata da uno dei deserti tra i più aridi del mondo”. Un altro esperimento è stato quello di usare l’acqua di riciclo proveniente dalla città di Eilat, trasportata con una conduttura di oltre 40 km nel deserto. “L’acqua riciclata - afferma il docente dell’Università della Tuscia - viene trattata biologicamente per il filtraggio ad Eilat e poi distribuita per usi agricoli. Anche in questo caso i risultati sono stati straordinari”. Il progetto ha avuto tanto successo da essere al via anche in Algeria. “Anche in Italia - conclude Valentini - il riciclo delle acque urbane (attualmente filtrate ed immesse nei corsi d’acqua, spesso con problemi di inquinamento) potrebbe essere una fonte alternativa di acqua che ridurrebbe la pressione dell’agricoltura (circa il 70% dei prelievi) sulla disponibilità idrica del Paese”. (Fonte: ANSA)


EFFETTO SERRA, UNA NAZIONE A RISCHIO DI ESTINZIONE

Lo ribadisce il quotidiano inglese The Independent, affidandosi non alle parole di autorevoli scienziati, ma a quelle degli abitanti di Tuvalu, piccolo arcipelago del Pacifico che rischia di venire inghiottito dal mare. Una nazione piccola e lontana, dove un vero e proprio esodo si sta compiendo nell’indifferenza della comunità internazionale. Il mare si sta innalzando. Da qualche tempo lo segnalano, allarmati, gli scienziati. Ma a Veu Lesa, abitante 73enne di Tuvalu, le ricerche accademiche non dicono nulla di nuovo. Gli basta guardarsi intorno per capirlo: le spiagge della sua infanzia sono svanite e i raccolti che utilizzava per nutrire la sua famiglia sono stati avvelenati dall’acqua salata. Ad aprile ha perfino dovuto abbandonare la sua casa a causa di una mareggiata ‘king’. Per Tuvalu, piccolo arcipelago del Pacifico comprendente 9 atolli, il global warming non è un pericolo astratto: è una realtà quotidiana. La piccola nazione, che si sviluppa a 4 metri sul livello del mare nel punto più alto, potrebbe non esistere più tra qualche decennio. La sua popolazione è già in fuga: più di 40mila vivono in Nuova Zelanda e molti dei 10.500 cittadini rimasti stanno programmando di aderire all’esodo. Alcuni, nonostante tutto, sono decisi a rimanere e a combattere l’avanzare delle onde.
Una battaglia che sembra ardua, se non persa in partenza. Il misuratore di maree nell’atollo principale, Funafuti, suggerisce che il livello del mare sta crescendo di 5,6 millimetri ogni anno, il doppio del tasso medio globale previsto dal Comitato intergovernativo sul mutamento climatico (IPCC). Non ci sono ancora abbastanza dati per individuare con certezza il trend, ma il quadro appare allarmante e implica un innalzamento di oltre mezzo metro nel prossimo secolo. Troppo: la maggior parte della popolazione di Tuvalu vive già ad uno o due metri sul livello del mare. Per aumentare il proprio peso e mandare propri diplomatici nel mondo, Tuvalu decise di entrare a far parte delle Nazioni Unite e del Commonwealth. Dopo 6 o 7 anni concluse che la comunità internazionale, e in particolar modo le nazioni industrializzate che immettono le maggiori quantità di CO2 nell’atmosfera, non si preoccupavano del problema. “Loro non ci ascoltavano mai quando chiedevamo aiuto – ha dichiarato Enate Evi, direttore del dipartimento sviluppo - ad essere onesto, penso che si preoccupino solo di se stessi e del loro vantaggio economico. Questo è quello che si percepisce, stando qui”. Alla scuola primaria di Funafuti i bambini imparano dei cambiamenti climatici dall’età di sei anni. La maggior parte di loro si aspetta di emigrare “perché la mia isola affonderà nel mare e non ci sarà posto per me dove vivere” spiega Vaimaila Teitala, di 12 anni. Per il tredicenne Manuao Talora: “Australia, America e Inghilterra non si preoccupano di noi perché siamo troppo piccoli e loro vogliono conservare le loro fabbriche e le loro automobili”. Ma l’innalzamento delle acque non è che uno dei problemi di questo angolo di Pacifico. Il surriscaldamento globale è causa di anche più dannose mareggiate primaverili e frequenti cicloni dalla forza devastante. La popolazione cerca di aiutarsi come può: cerca di ridurre la propria emissione di gas serra, già bassissima; ha sostituito il taro, la coltivazione tradizionale, con vegetali più resistenti al sale del mare; costruisce case sopraelevate per sfuggire alle mareggiate e colleziona kit di sopravvivenza.
La linea politica ufficiale è di assistere coloro che vogliono emigrare ma che, anche, vogliono continuare a lottare per il futuro di Tuvalu. Le misure locali, dopo tutto, possono ben poco contro l’innalzamento della temperatura. “Possiamo dire alle persone di spegnere le luci e di riciclare i rifiuti, – ha dichiarato il signor Pese, della croce rossa – ma il livello del mare continuerà a crescere se i paesi più grandi non ridurranno le emissioni”. Le mareggiate ‘king’ sono un nuovo fenomeno. Quando colpiscono, la terra è quasi allo stesso livello dell’oceano e le onde si infrangono direttamente nell’isola. Ciò che poi gli abitanti temono è che assieme all’alta marea si manifesti anche un ciclone. “Potrebbe cancellare la maggior parte di Funafuti” è stata l’opinione di Taula Katea, direttore dell’ufficio meteorologico.
La Nuova Zelanda è pronta ad accogliere 75 abitanti di Tuvalu ad anno. Ma anche là non è tutto rose e fiori. Chi aveva lavori impiegatizi si è ritrovato, dopo l’esodo, a raccogliere fragole. Il destino di Tuvalu non è ancora segnato. La piccola nazione potrebbe sopravvivere, a patto che le emissioni di CO2 vengano ridotte. I paesi, che hanno causato questa situazione, potrebbero cercare delle soluzioni – pareti ben progettate per bloccare l’avanzata del mare o dragare sabbia dalla laguna per alzare il livello della terra. Ma la seconda ipotesi potrebbe costare 1,3 milioni di sterline, una cifra da capogiro per Tuvalu, ma una goccia nell’oceano per Australia e Stati Uniti, due nazioni che hanno qualcosa da farsi perdonare in materia di global warming ma che, nonostante le loro elevate emissioni di gas serra, non hanno neppure sottoscritto il protocollo di Kyoto. (Fonte: AliceSalvadanaio)


OZONO A BASSA QUOTA ACCELERA EFFETTO SERRA

Fra le cause dei cambiamenti climatici ce n’è una che è stata ‘dimenticata’ dagli scienziati: l’ozono a livello del terreno. Lo sostiene uno studio pubblicato da Nature, secondo cui il contributo di questo gas, che impedisce alle piante di assorbire la CO2, è doppio rispetto a quanto stimato in precedenza. Gli effetti dell’ozono ad alta quota sull’effetto serra erano già noti: questo gas intrappola il calore che altrimenti sarebbe disperso nello spazio. I ricercatori dell’Università inglese di Exeter si sono concentrati invece su quello a bassa quota, e sugli effetti indiretti che può avere nel riscaldamento globale dovuti all’azione sulle piante. “L’ozono troposferico danneggia le piante, riducendo la loro produttività - spiega Peter Cox, che ha coordinato lo studio - il suo impatto però non è considerato dai modelli sui gas serra. Noi abbiamo invece sviluppato un modello che ne tiene conto, e abbiamo scoperto che l’effetto indiretto è della stessa grandezza di quello diretto”. I danni provocati dall’ozono sono visibili soprattutto sulle foglie. Questa sostanza, che si forma per reazione fotochimica tra l’ossigeno dell’aria e altri gas serra come metano e monossido di carbonio, entra nelle foglie attraverso i pori e danneggia le cellule producendo sostanze dannose, e diminuendo l’efficienza della fotosintesi, cioè il meccanismo con cui la CO2 viene catturata. Una diminuzione della produttività si traduce quindi in una maggior quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. “Secondo il nostro modello - continua Cox - da qui al 2100 l’impatto dell’ozono sulla produttività delle piante sarà tra il 14 e il 23 per cento, e in certe regioni toccherà il 30 per cento. Le zone più colpite saranno Nord America, Europa, Cina e India, ma anche gli ecosistemi tropicali”. Per quantificare i diversi effetti dell’ozono i ricercatori hanno usato la misura della ‘forza radiativa’, cioè la differenza tra le radiazioni che arrivano sulla Terra e quelle che escono. Un valore positivo di questa misura indica che la terra si scalda, e viceversa. Il contributo dato fino al 2100 dall’ozono nell’alta atmosfera è valutato dal modello in 0,89 Watt su metro quadrato, mentre quello dell’ozono a quote basse tra 0,62 e 1,09. Questi numeri sono comunque molto alti, se si pensa che nell’era preindustriale questo valore era 0,05, mentre fino al 2000 è indicato dall’Ipcc intorno a 0,38. (Fonte: ANSA)


PERUGIA: NASCE CENTRO RICERCHE SUL CLIMA

Il centro dell’ateneo perugino si occuperà di ricerche e progetti in merito ai cambiamenti climatici. Sette le strutture scientifiche universitarie coinvolte. Per iniziativa di quattro dipartimenti scientifici e tre centri d’ateneo, l’Università degli Studi di Perugia ha istituito il CRC (Centro di Ricerche sul Clima e sui cambiamenti climatici). Il centro ha sede nelle strutture del CRB (Centro di Ricerche sulle Biomasse) in località Spina di Marsciano (PG) e la direzione scientifica è stata assegnata al professor Bruno Romano. Tra gli obiettivi, quello di coordinare, promuovere e svolgere ricerche, sia di base che applicate, nel settore del clima e dei cambiamenti climatici. Inoltre, stimolare iniziative tese alla partecipazione a programmi e progetti di ricerca in ambito nazionale ed internazionale e favorire iniziative tese alla divulgazione scientifica e alla collaborazione interdisciplinare, oltre al reclutamento di personale di ricerca. Molteplici i filoni di ricerca: dagli effetti delle variabili meteorologiche sull’accrescimento di colture energetiche dedicate agli effetti dei parametri meteorologici sull’inquinamento atmosferico e la dispersione degli inquinanti; dallo studio e modellazione dei processi climatici e fisici del sistema atmosferico e oceanografico terrestre agli effetti dei cambiamenti climatici sui criteri di gestione delle risorse idriche, su quelli delle opere idrauliche e sulle problematiche connesse con la difesa del suolo e le dinamiche del territorio. (Fonte: ANSA)


» RINNOVABILI //////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////


OCSE BOCCIA SUSSIDI A BIOCARBURANTI

L’Ocse boccia i sussidi per i biocarburanti. In uno studio, distribuito agli addetti ai lavori dei 30 stati membri, l’Organizzazione mette in guardia sul fatto che gli aiuti statali per i biocarburanti causeranno penuria nei prodotti alimentari, favoriranno la distruzione degli habitat naturali senza avere che un minimo impatto sul cambiamento climatico. Anche nel migliore degli scenari, sottolinea il documento, i biocarburanti potranno garantire entro il 2050 solo una diminuzione del 3% dell’energia responsabile della produzione di emissioni di CO2. Inoltre, aggiunge lo studio, anche questo piccolo beneficio dovrà essere pagato a caro prezzo perché “senza sussidi, la maggior parte dei biocarburanti non possono competere con i prezzi dei prodotti petroliferi in molte regioni del mondo”. Negli Stati Uniti, per esempio, si spendono ogni anno circa sette miliardi di dollari per sostenere la produzione di etanolo e, in questo modo, per ogni tonnellata di CO2 che non si immette nell’aria, i contribuenti pagano 500 dollari. Un costo che in Europa potrebbe salire fino a dieci volte tanto. Gli autori dello studio non hanno dubbi: le attuali politiche di sostegno e di tariffe protette spingeranno i proprietari terrieri ad orientarsi dall’attuale produzione destinata all’alimentazione umana e degli animali a quella di biomassa energetica, spingendo l’acceleratore sui prezzi dei prodotti agroalimentari. La politica dei sussidi, quindi, va abbandonata a favore di investimenti nella ricerca sui biocarburanti di seconda generazione. Lo studio assesta un duro colpo alla recente decisione comunitaria, per cui nel 2020 i biocarburanti dovranno rappresentare il 10% di tutti i carburanti usati per il trasporto. Sostiene, infatti, che le attuali politiche di sostegno scommettono solo su una tecnologia a scapito di un’ampia varietà di differenti carburanti e prodotti energetici proposti come possibili opzioni per il futuro. Si insiste sul fatto che i governi nazionali dovrebbero smettere di creare nuovi mandati per i biocarburanti e impegnarsi a studiare il modo di eliminare gli esistenti, rimpiazzandoli preferibilmente con politiche, come una tassa sul carbonio, a favore di tecnologie neutre. (Fonte: ANSA)

ARRIVA ELETTRICITA' DA STOMACO MUCCHE

Infaticabili ‘produttori’ di latte, formaggi e carne, i bovini potrebbero diventare in un futuro prossimo attori protagonisti per lo sviluppo di energia pulita, continua e rigenerabile. E’ quanto sostengono ricercatori statunitensi dell’Ohio State University, che hanno sviluppato una tecnologia in grado di generare elettricità sfruttando i batteri presenti nel fluido del rumine (il più grande dei quattro stomaci della mucca). Gli scienziati hanno infatti creato delle piccole celle a combustibile, di dimensioni non superiori a quelle di un palmare, capaci, per ora, di produrre abbastanza energia elettrica per illuminare una lampadina. All’interno delle celle a combustibile microbiologico, un compartimento viene riempito con cellulosa e fluido del rumine. “L’energia - ha spiegato Hamid Rismani-Yazdi, ricercatore del Food, agricultural and biological engineering dell’Ohio State University e curatore della ricerca assieme a Ann Christy e Olli Tuovinenè prodotta dai batteri che scompongono la cellulosa, una delle più abbondanti risorse del pianeta. Essa è infatti presente sia nel mondo agricolo, come residuo dei raccolti, sia negli scarti della lavorazione della carta e del legno”. La cella utilizzata è un’evoluzione di un modello che gli stessi ricercatori avevano sviluppato alcuni anni fa: quattro volte più piccola, ha una potenza di tre volte superiore. “Se con la vecchia tecnologia - ha continuato lo scienziato - erano necessarie quattro celle per produrre abbastanza elettricità per ricaricare una pila stilo (taglia AA), ora ne bastano due”. Ma la più importante novità risiede nel fatto che mentre una comune batteria una volta esaurita è da buttare o al limite da ricaricare, questa cella richiede semplicemente l’aggiunta costante di nuova cellulosa, la cui quantità dipende dall’apparecchio che si sta alimentando. “L’energia prodotta da queste celle è in sostanza inesauribile fino a che i batteri hanno cellulosa di cui nutrirsi. Attualmente - ha aggiunto Rismani-Yazdi - abbiamo fatto lavorare le celle fino a tre mesi”. Sebbene la tecnologia stia ancora muovendo i suoi primi passi, i ricercatori stanno concentrando i loro sforzi per aumentare la quantità di energia che le celle possono produrre e stanno sperimentando in laboratorio la coltivazione di massa di batteri del rumine per possibili future produzioni delle celle su larga scala. (Fonte: ANSA)



NUOVA TECNOLOGIA SOLARE TERMODINAMICA

I sistemi solari termodinamici si arricchiscono di una nuova tecnologia. Dallo scorso luglio ad Almeria, in Spagna, è in fase di sperimentazione un impianto dimostrativo, sviluppato dai ricercatori del Fraunhofer Institute for Solar Energy (ISE) di Friburgo, in collaborazione con un gruppo di scienziati del Centro Aerospaziale tedesco (DLR).
Il sistema è costituito da specchi piani che riflettono la luce solare su un concentratore secondario composto da lenti di Fresnel, il quale fa convergere la radiazione su un tubo lineare, che corre lungo la fila di specchi, contenente il fluido termovettore. L’acqua è vaporizzata direttamente nel tubo e riscaldata fino a 450° Celsius ad alta pressione. Il vapore mette in funzione un turbogeneratore elettrico. I riflettori Fresnel rappresentano un’alternativa a basso costo rispetto ai giganteschi specchi parabolici usati tradizionalmente nei sistemi a concentrazione per catturare la luce solare e focalizzarla su un tubo assorbitore centrale. Secondo Ericke Weber, direttore dell’ISE, “I riflettori lineari Fresnel sono meno costosi degli specchi parabolici, occupano meno spazio e sono meno sensibili al vento”. Con questi presupposti è verosimile che possano guadagnare ampi segmenti di mercato. Se saranno superati i test pratici completi, i riflettori lineari Fresnel potranno essere usati nella costruzione di centrali solari termiche commerciali. (Fonte: La Scossa)




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MOBILITA' SOSTENIBILE ///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////


SI VA A SCUOLA. ZAINO IN SPALLA E AUTO...IN GARAGE

I dati pubblicati dal Transport for London (TfL) mostrano che, sebbene i piani del traffico abbiano ridotto significativamente i tragitti casa-scuola, la metà delle auto circolanti nell’ora di punta sono ancora quelle di mamme o papà che accompagnano i figli a scuola.
Sono più di 1.600 (53% del totale) le scuole che a Londra hanno un piano del traffico, ed entro il 2009 – come dichiarato dal Sindaco Ken Livingstone - ognuna avrà il proprio e riceverà supporto nello studio di soluzioni pratiche per decongestionare l’andirivieni di auto, nel miglioramento della sicurezza delle strade, nella disponibilità di fondi per parcheggi e percorsi ciclabili, nella predisposizione di schemi di mobilità sostenibile.
I risultati delle prime 300 scuole che hanno applicato un piano del traffico nella capitale inglese mostrano una riduzione del traffico del 7% circa, corrispondente a 1.200 tragitti in meno. Quando tutte le scuole saranno a regime saranno ben 4,5 milioni le tratte in auto evitate. Le opzioni disponibili sono le più varie: dal car sharing, la condivisione di vetture a costi estremamente convenienti per il cittadino, al cosiddetto ‘piedibus’, una sorta di autobus di bambini accompagnati a piedi da un ‘autista’ adulto, con tanto di itinerario, orari, fermate stabilite e controllore.
I benefici derivanti da simili soluzioni non sono pochi: minor inquinamento atmosferico, maggiore sicurezza per gli studenti, riduzione delle emissioni (l’anno scorso un taglio di 1.150 t di CO2) e dei consumi, minori costi per le famiglie, più movimento a piedi o in bicicletta, maggiori opportunità di socializzazione, … meno genitori stressati che sbuffano in coda ai semafori pensando a una nuova scusa per giustificare il ritardo con il capoufficio! (Fonte: Transport for London)


     A cura di Fabio Bruno

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