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editoriale

AGROBIOENERGIE E PIANO IRRIGUO PER
FRONTEGGIARE L'EMERGENZA DEL CLIMA

di Paolo De Castro


Clima, acqua ed energia sono i fattori che più di ogni altro guidano la definizione degli assetti di sviluppo economico, sociale ed ambientale a livello mondiale. In questo contesto l’agricoltura è un settore destinato più di altri a subire profonde evoluzioni per effetto dei cambiamenti climatici già in atto e dei nuovi scenari energetici, con riflessi importantissimi sulle condizioni di competitività economica e di sostenibilità delle attività stesse.
Il ruolo dell’agricoltura, in tale nuova prospettiva, non può essere circoscritto a quello di settore produttivo basato ‘sull’utilizzo’ del fattore terra e del territorio, ma deve essere inquadrato prioritariamente per la sua specifica funzione di soggetto che ‘gestisce’ il territorio (65% della superficie nazionale). L’agricoltura è quindi il settore che più di ogni altro può esercitare il ruolo attivo nelle politiche di sviluppo sostenibile. Sviluppo, cioè, in grado di rispondere alle esigenze di migliore qualità ed equità sociale senza compromettere ambiente, clima e risorse naturali e allo stesso tempo valorizzando la qualità dell’ambiente come fattore virtuoso per l’incremento del benessere economico e sociale.
L’assoluta priorità delle sfide imposte dai cambiamenti climatici è stata confermata anche in occasione del recente Consiglio Europeo, dove è stata evidenziata la necessità di un’azione decisiva ed immediata che dovrebbe portare, in ambito comunitario, entro il 2020 alla riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra nell’ordine del 20% rispetto al 1990. Di fronte a queste priorità di carattere generale e settoriale, l’azione del Governo ha dato corpo in questi mesi ad un’accelerazione delle politiche capaci di riportare il nostro Paese in una posizione di avanguardia nella gestione delle nuove interazioni tra clima, energia, ambiente e agricoltura, assumendo come prioritarie le problematiche riguardanti l’emergenza idrica e lo sviluppo delle filiere agro-energetiche. In questo quadro si inseriscono alcuni importanti interventi varati dal Governo, primo fra tutti, quello definito con la Finanziaria 2007-2009 per l’avvio del Piano irriguo nazionale. Di fatto, vengono resi esecutivi progetti e investimenti in infrastrutture della rete irrigua nazionale per oltre 1,03 miliardi di euro. Progetti già cantierabili che fino ad ora non avevano ottenuto adeguata attenzione e volontà di realizzazione.
Un simile risultato non può però essere considerato un punto di arrivo e occorre, già da ora, lavorare a ulteriori interventi non inclusi nei progetti finanziati dal Piano irriguo nazionale. Ciò anche per sopperire alla diminuzione ulteriore delle fonti idriche derivanti dai ghiacciai permanenti e dalle nevi perenni.
Per tale motivo occorre riportare all’attenzione nazionale anche il tema dei bacini collinari, per i quali si possono ripensare politiche attive (anche fiscali) capaci di stimolare nuove realizzazioni e, soprattutto, di recuperare l’efficienza di quelli abbandonati e ormai interrati.

Questi temi portano al centro dell’attenzione anche il ruolo delle Regioni, e in questo senso l’opportunità in più ci viene offerta da una sapiente valorizzazione delle risorse e degli interventi attivabili nel quadro della programmazione dello sviluppo rurale 2007-2013. Già nel Piano strategico nazionale, approvato dalla Commissione UE lo scorso febbraio, il tema delle risorse idriche viene individuato come obiettivo prioritario e ora le singole Regioni dovranno tradurre tali indirizzi nei singoli Programmi regionali di sviluppo rurale.
In questo senso il ministero ritiene che la definizione di un alto momento di confronto nazionale attraverso la Conferenza Nazionale sul clima ed energia potrà costituire la base per definire una ‘visione nazionale’ a tali politiche di sviluppo, capace di interpretare le peculiarità del nostro territorio e delle nostre imprese, ma che sia capace, al tempo stesso, di valorizzare un approccio integrato tra le numerose competenze e politiche coinvolte.

Paolo De Castro, Ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali

(Fonte: ARPA Speciale)



L'OCEANO E' BOLLITO
di Vincenzo Artale

Quello che sta avvenendo oggi è già successo in passato esattamente undicimila anni fa. Il ricorso storico parte alla fine del secolo scorso, quando la temperatura del Mediterraneo registra un progressivo innalzamento. Un surriscaldamento che ha già causato, assieme alle correlate trasformazioni in atto nell’Atlantico settentrionale e sulla Corrente del Golfo, enormi mutazioni climatiche. Dei quattro nostri mari l’Adriatico è quello che si riscalda di più. Nelle acque tra Italia e Albania ci sono picchi di anomalie nelle temperature superficiali, durante il periodo estivo, di oltre tre-quattro gradi. Per anomalia di temperatura superficiale, si intende la differenza tra quella media osservata negli ultimi trenta-quaranta anni e la temperatura del mese o del giorno preso in considerazione. Parametri che applicati sperimentalmente fanno dedurre che se al sud del sistema atlantico sono sempre più frequenti eventi meteorologici eccezionali come gli uragani, per l’Europa nord occidentale il rischio è di ritrovarsi fra non moltissimo davanti a una lunga unica stagione fredda.

Il Mediterraneo ha la febbre

Il tema dei cambiamenti climatici è sempre di più l’argomento del giorno, sempre in prima pagina, rischia perfino di annoiare o, ancor peggio, di essere dato per scontato, congelando le due opposte fazioni: negazionisti e catastrofisti. Al pari delle altre questioni ambientali, quella climatica è soprattutto una seria questione politica. Usando le parole di Rina Gagliardi, il clima “decostruisce uno dei paradigmi dominanti della società moderna, quello dello sviluppo economico, inteso come mera e illimitata crescita quantitativa dello sviluppo industriale”. Inoltre, il problema dei cambiamenti climatici costituisce una delle sfide di fisica più difficili e affascinanti. Premesse queste generiche considerazioni andiamo sul concreto: qual è lo stato di salute del nostro mare? Ancora: quanto tempo gli resta da vivere? Lo studio delle analisi di lunghe serie temporali di temperatura dice, con certezza, che il Mediterraneo ha la febbre. Per essere sicuri di questa infausta diagnosi siamo andati a misurare la temperatura al di là dello Stretto di Gibilterra; un po’ come quando noi ci misuriamo la febbre sotto le ascelle, non significa che le ascelle siano malate, ma che il corpo nel suo insieme, da qualche parte, ha qualche infezione in atto. Ricapitolando: registriamo un aumento nella temperatura degli ultimi 50 anni di mezzo grado centigrado a 1.200 metri di profondità. Ciò può essere interpretato come l’effetto integrale di tutti i cambiamenti avvenuti negli scorsi decenni all’interno delle masse d’acqua mediterranee. Il dato ci mette al riparo da interpretazioni parziali. E consente di affermare con certezza che i cambiamenti climatici esistono e sono già, da qualche tempo, in atto. Per dimostrarlo analizziamo alcuni elementi sul funzionamento del ‘mare nostrum’. Nonostante abbia dimensioni trascurabili in confronto ai grandi oceani, il Mediterraneo è un bacino in cui avvengono, su scala più piccola, una varietà di processi e interazioni atmosfera-oceano tipici dei ‘grandi mari’. Addirittura, il Mediterraneo dagli oceanografi viene unanimemente considerato come un laboratorio per lo studio dei processi chiave dell’intera circolazione oceanica.

E’ più caldo e salato

Molti studi, attraverso l’analisi dei dati raccolti nel corso di numerose campagne oceanografiche nell’ultimo secolo, mostrano un graduale aumento della temperatura delle acque intermedie (acqua levantina) e profonde. L’aumento è accompagnato da una contemporanea crescita della salinità: più l’acqua è calda, maggiore è la sua capacità di diluire il sale. Pensate a quando vi preparate l’acqua per cuocere gli spaghetti: si tratta dello stesso fenomeno. Come il quadro mostra, ne consegue che nel corso del ventesimo secolo le acque intermedie hanno subito un riscaldamento e l’aumento della salinità, che può essere diviso in tre diverse fasi temporali. Infatti, l’iniziale tasso di crescita osservato nei primi anni del secolo subisce un incremento intorno al 1960. Dai pochi centesimi di grado centigrado dei precedenti 40 anni si passa a quasi un decimo di grado nei successivi trenta. Negli ultimi dieci anni si registrano trend di due-tre decimi di grado. Parallelamente il tasso di crescita di temperatura e salinità per le acque intermedie, dette levantine, risulta essere comparabile, se non leggermente superiore, a questi valori. Dopo il 1990, temperatura e salinità delle acque profonde nel Mar Tirreno e nel Mar Ligure aumentano di qualche centesimo di grado per anno. Cambiamenti del centesimo di grado sono considerati dai fisici oceanografi all’interno della variabilità climatica. Il decimo di grado, invece, è già indice di qualche rilevante cambiamento. E’ impensabile che acque profonde o intermedie subiscano variazioni di un grado o frazione di esso. Tanto per capirci, un’acqua levantina che superi i quindici gradi è disastrosa.

Perché si riscalda?

Ora bisogna capire a cosa è dovuto questo riscaldamento delle acque intermedie e profonde del Mar Mediterraneo Occidentale. Per quanto riguarda gli andamenti osservati fino agli anni Novanta esistono due ipotesi. La prima interpreta l’aumento di temperatura del Mediterraneo Occidentale, come una conseguenza della diga d’Assuan sul Nilo, che ha considerevolmente diminuito l’afflusso d’acqua dolce fluviale. Questo avrebbe contribuito a un costante aumento della salinità delle acque di superficie, che a causa del concomitante effetto sulla densità ha prodotto acqua intermedia più calda e salata. Altri autori hanno individuato in questi andamenti di temperatura e salinità un primo effetto del riscaldamento dovuto ai gas serra. Non a caso, è stato calcolato che l’osservato aumento della quantità di calore ricevuta dal Mediterraneo, dal 1940 al 1995, è compatibile con le stime dell’effetto radioattivo (passaggio di calore dall’atmosfera all’acqua e viceversa) dovuto all’effetto serra nello stesso periodo. Altri autori preferiscono vedere in questi andamenti di temperatura e salinità un effetto ‘locale’ della naturale variabilità interannuale del clima. In particolare, dal 1960 alla fine degli anni Ottanta si è osservata una notevole riduzione delle precipitazioni. Queste possono aver contribuito ad un aumento di salinità del bacino mediterraneo. In questo scenario, una maggiore temperatura sui fondali si spiega anche con l’aumento dell’attività convettiva (passaggio di calore tra uno strato e l’altro) che, coinvolgendo più acqua intermedia, contribuisce a trasportare più calore al fondo del Mediterraneo Occidentale. Probabilmente non esiste un’unica causa. In pratica, all’aumento di temperatura del bacino dovuto ai gas serra, si aggiungono le conseguenze di numerose dighe. Costruite lungo i fiumi che sfociano nel Mediterraneo, hanno diminuito considerevolmente l’afflusso d’acqua dolce fluviale nel mare.

Può il Mediterraneo regolare il cambiamento climatico?

Gli scenari climatici indicano, in un futuro non molto lontano, in ogni caso meno di un secolo, il blocco della circolazione termoalina e l’avvento di una piccola era glaciale per il Nord Europa. Curiosamente, il nostro piccolo Mediterraneo può giocare un simpatico ruolo. L’impatto a livello climatico del Mediterraneo è stato evidenziato, forse in modo sensazionistico, da un articolo sulla rivista internazionale Eos, in cui si proponeva la costruzione di una diga nello Stretto di Gibilterra per regolare il flusso di sale nel Nord Atlantico e conseguentemente, l’abbassamento della temperatura superficiale nelle regioni sub-polari. Questo avrebbe evitato una prossima era glaciale. Sappiamo che l’acqua del Mediterraneo quando esce dallo Stretto di Gibilterra, essendo più pesante dell’acqua atlantica dato il suo maggior contenuto di sale, affonda, piazzandosi ad una profondità media di mille metri e spargendosi su tutto il Nord Atlantico. Inoltre, come conseguenza dei cambiamenti climatici, il Mediterraneo sta producendo delle acque più calde e maggiormente salate. Questo aumento ha un feedback positivo con la circolazione termoalina atlantica, in quanto rende più intenso il trasporto delle acque subtropicali nelle regioni sub-polari. La prima conseguenza sarebbe una crescita delle condizioni di riscaldamento superficiali del Mar di Labrador. Questo causerebbe maggiore avvezione, ovvero spostamento in senso orizzontale, d’aria umida nel Canada e un aumento massiccio delle precipitazioni, con conseguente crescita dei ghiacci dell’Artico. Così il Mediterraneo può controbilanciare l’effetto negativo sulla circolazione termoalina dello scioglimento dei ghiacci. Questo lavoro, pur nel suo eccesso di fantasia ed incompletezza, ha vivacizzato il dibattito su un problema veramente interessante, anche se in questo periodo la discussione si sta svolgendo solo a livello di modellistica ed evidenziando alcune divergenze tra gli addetti ai lavori.

Le correnti atlantiche

Il Mediterraneo consuma per evaporazione più acqua di quella che riceve dalla pioggia e dai fiumi: in media il deficit è di circa un metro l’anno. Il generoso Atlantico, tramite Gibilterra, fornisce ciò di cui il bacino ha bisogno. L’acqua atlantica che entra nel Mediterraneo forma uno strato superficiale variabile sia nello spessore (100-200 metri) sia nei valori di temperatura e salinità. I circa 36 grammi di sale su un litro d’acqua all’origine sono un valore apparentemente piccolo, ma giocano un ruolo cruciale nella circolazione oceanica. L’acqua così perde galleggiabilità lungo il suo percorso perché non evapora il sale che assolve lo stesso ruolo dei pesi per i sommozzatori, più ne rimane in gioco, più a fondo va l’acqua superficiale: semplice no? Il liquido continua poi il suo percorso lasciandosi la costa sulla destra a causa della forza di Coriolis (particolare manifestazione dell’inerzia). Nella parte orientale del bacino, vicino all’isola di Rodi, venti intensi chiamati Etesiani formano un’acqua intermedia con caratteristiche saline molto elevate e con una temperatura relativamente alta di circa 14,5 gradi centigradi. Questo è il ramo di ritorno dell’acqua atlantica; il funzionamento è simile a quello delle scale mobili: quando lo scalino ha finito di trasportarvi in cima, sparisce e ricompare all’inizio della scala, pronto a rifare la stessa fatica. Allo stesso modo il flusso dell’acqua levantina, propagandosi principalmente in modo antiorario e ad una profondità tra i 200-800 metri, finalmente arriva nell’Oceano Atlantico. Un viaggio lungo circa 20 anni, attraverso intense variazioni di temperatura e salinità dovute al mescolamento con altre acque incontrate lungo il suo cammino. Per completare la storia del Mediterraneo manca ancora un pezzo importante, un fondamentale elemento caratteristico della conveyor belt mediterranea (la scala mobile): la produzione d’acqua profonda, che costituisce un importante indicatore climatico. Questo tipo d’acqua si forma principalmente nel Golfo del Leone, nel Nord e Sud dell’Adriatico, nella regione Nord-Est del bacino Levantino e nel Mar Egeo. Formazioni d’acque dense avvengono durante intensi fenomeni evaporativi, in cui l’oceano cede all’atmosfera notevoli quantità di calore a causa dei venti freddi e secchi (Maestrale, Etesiani e Bora). Queste manifestazioni lasciano a disposizione tantissimo sale in poco tempo (3-4 giorni), tanto da rendere l’acqua superficiale così instabile da inabissarsi improvvisamente. La conseguenza principale è la ventilazione dell’intera colonna d’acqua che, ossigenata garantisce la sopravvivenza dell’intero sistema biologico. Una caratteristica interessante di questi fenomeni consiste nella loro limitata dimensione spaziale e temporale a fronte dell’enorme impatto sull’intera circolazione generale. Un simile ruolo lo gioca la regione subpolare del Labrador nella circolazione del Nord Atlantico. Quando questi processi si interrompono il mare muore, per mancanza di ossigeno.

Il ruolo dell’Oceano nei cambiamenti climatici globali

E’ noto che il sistema climatico è costituito, oltre che dal Sole che fornisce l’energia, dall’atmosfera, dall’oceano, dalla criosfera (i ghiacci) e dalla biosfera (il mondo vivente). Il clima terreste è determinato dagli scambi termodinamici interni e dagli scambi di acqua all’interno di questi settori. L’atmosfera e l’oceano sono i principali responsabili del trasporto e della distribuzione del calore sulla terra. Si stima che il calore trasportato dalle regioni tropicali verso i poli si distribuisca in parti uguali tra l’oceano e l’atmosfera. Per esempio, nell’Oceano Atlantico il calore immagazzinato negli strali superficiali delle zone tropicali è trasferito verso nord attraverso grandi correnti oceaniche (la Corrente del Golfo), il cui principale effetto è di mitigare il clima dell’Europa Occidentale. Queste correnti, durante il loro percorso verso nord-ovest, non cessano mai d’interagire con l’atmosfera, attraverso scambi di massa e calore. Lo stesso fenomeno si produce nell’Oceano Pacifico, ma con un trasporto di calore sud-nord meno efficiente, tanto da produrre in media una differenza di circa quattro gradi in meno, rispetto alla regione più settentrionale del Nord Atlantico. I processi d’interazione tra l’oceano e l’atmosfera sono estremamente complessi. In media, l’atmosfera fornisce all’oceano il 43 per cento della sua energia interna, il resto proviene direttamente dal sole (35 per cento) e dagli scambi con i continenti (22 per cento). In seguito, il calore assorbito dall’oceano è acquisito e ridistribuito orizzontalmente e verticalmente all’interno delle masse d’acqua ed infine restituito all’atmosfera. I tempi di risposta del sistema oceanico sono di circa due ordini di grandezza maggiori di quelli atmosferici. La Corrente del Golfo, sempre attraverso misure sperimentali, che purtroppo sono state eseguite in modo sistematico solo negli ultimi cinquanta anni, ha mostrato una certa vulnerabilità. Parte di questa si può spiegare con la mutabilità dei gyres (vortici oceanici) subtropicali. Alcuni suggeriscono che questa variabilità possa essere associata a quella climatica in generale. Un indicatore climatico molto potente specialmente per l’area del Nord Atlantico, ma che funziona bene anche per il Mediterraneo è il Nao.

Cos’è il Nao?

I climatologi quando si trovano davanti una montagna di dati da interpretare, che variano apparentemente a caso, e non hanno al momento una teoria a disposizione per interpretarli efficacemente, provano a fare delle correlazioni. Ossia, prendono la serie temporale ‘incasinata’ e la confrontano con un’altra serie temporale, ugualmente incasinata, ma di cui si conosce perlomeno l’origine. Ecco da dove nasce l’esigenza di inventare l’indice Nao, definito semplicemente come la differenza di pressione tra Stykkishohnur (Islanda) e Ponta Delegata (Isole Azzorre). Il funzionamento del Nao è simile a quello di un’altalena, dove agli estremi vi sono delle anomalie di pressione dell’Atlantico del Nord e di quello subtropicale e le cui differenze generano il moto alterno dell’altalena, o parallelamente, i relativi moti atmosferici. L’indice corrispondente varia di anno in anno, ma mostra anche una tendenza a rimanere in una stessa fase prevalente anche per molto tempo: quando sta in fase negativa (alta pressione al nord) le perturbazioni atmosferiche portano molta più aria umida nel Mediterraneo ed aria fredda nell’Europa Settentrionale. Durante la fase positiva, invece, si ha un inverno caldo ed umido in Europa e freddo e secco in Canada e Groenlandia. Com’è avvenuto nell’anno 2006 e sta avvenendo nel 2007. Tuttavia, il Nao, ossia la variabilità naturale, non spiega tutto.

Cosa si sta indebolendo?

Sappiamo che il Nord Atlantico riceve energia termica equivalente a circa un PWatt, cioè un milione di miliardi di volte l’energia che normalmente usiamo in casa, attraverso la Corrente del Golfo e la Corrente Nord Atlantica. Questo calore, capace di far funzionare centinaia di mondi industrializzati, è in seguito scambiato con l’atmosfera rendendo il clima europeo più mite. Questa enorme quantità di calore non è trasportata solo dalle correnti indotte dallo stress del vento sulla superficie marina, ma soprattutto dalle correnti indotte dalla cosiddetta ‘circolazione termoalina’, la quale s’instaura in virtù delle differenze di temperatura e salinità (e quindi di densità) tra le diverse masse oceaniche. Spesso, tutti i processi connessi con la circolazione termoalina sono semplificati introducendo un ‘paradigma concettuale’ abbastanza efficace nel sintetizzare le complesse interazioni non lineari tra atmosfera e oceano, in cui il trasporto di calore, acqua dolce e traccianti è rappresentato come un gigantesco moto circolare verticale, indicato appunto come ‘nastro trasportatore oceanico’ (Oceanic conveyor belt), in cui il flusso d’acque calde superficiali raggiunge la parte più settentrionale del Nord Atlantico. Qui, a causa sia della perdita di calore superficiale sia della conseguente maggiore concentrazione di sale, l’acqua in superficie affonda trasformandosi in una corrente profonda e fredda in direzione opposta, ovvero verso sud. E’ importante considerare che l’intensità della circolazione termoalina, e proporzionalmente anche la quantità di calore trasportato, dipende da piccole differenze di densità, le quali dipendono da un delicato equilibrio nel Nord Atlantico tra raffreddamento alle alte latitudini e l’apporto d’acqua dolce (meno densa) dovuta a pioggia, neve e fiumi. Un maggiore apporto d’acqua dolce riduce l’intensità della circolazione termoalina ma non in modo lineare. All’inizio, il meccanismo convettivo continua ad essere attivo e la circolazione relativa continua a rimuovere l’acqua meno salata superficialmente ed a sostituirla con quella più salata proveniente da sud. Tuttavia questo meccanismo ha dei punti critici, sorpassati i quali la circolazione termoalina incomincia ad oscillare tra diversi stati d’equilibrio, compreso quello compatibile con un eventuale blocco.

Cosa ci aspetta?

Il riscaldamento superficiale che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni ha un effetto simile ed è, inoltre, la causa dello scioglimento dei ghiacciai, non solo quelli marini del Polo Nord ma anche di quelli terrestri, in particolare quelli della Groenlandia. Dalle osservazioni tratte da uno studio del 2005 dell’oceanografo Harry Bryden, si può costatare come il trasporto di calore nel Nord Europa (Corrente del Golfo) si sia ridotto quasi del 30 per cento. Ossia è aumentata la ricircolazione verso sud. In pratica, le zone tropicali e subtropicali stanno accumulando calore, dato che i meccanismi di esportazione del calore da queste aree si stanno indebolendo. Se la circolazione termoalina si bloccasse completamente nelle aree del Nord Atlantico la temperatura si abbasserebbe di oltre 10 gradi. Cosa che, infatti, è già successa nel passato, come si può costatare dalle analisi sui sedimenti oceanici e dalle ‘carote’ di ghiaccio in Groenlandia. Qui si è evidenziato che la circolazione termoalina si è interrotta bruscamente diverse volte a causa di flussi anomali d’acqua dolce provocando dei lunghi periodi freddi in Europa Nord Occidentale. Periodi lunghi almeno centinaia di anni. L’ultimo di questi eventi è accaduto circa undicimila anni fa. Il suo studio, pur non dando alcuna indicazione certa sul clima futuro, è importante perché ci dà la consapevolezza che eventi catastrofici nella circolazione oceanica con fortissimi impatti sulla variabilità climatica globale possono avvenire indipendentemente da fattori antropici, ossia possono essere considerati come delle instabilità insite al sistema oceano-atmosfera. Tuttavia il riscaldamento globale, dovuto per esempio ai gas serra, può contribuire ad aumentare sia la temperatura superficiale dell’oceano sia la piovosità alle alte latitudini. Entrambi i fattori danno un contributo negativo sulla densità superficiale riducendo così il motore della circolazione termoalina, come sembra che stia avvenendo dalle misure sperimentali analizzata da Bryden. A questo punto la domanda cruciale è: quanto siamo vicini ai punti critici di cui abbiamo discusso sopra? Per esempio, dall’ultimo rapporto dell’Ipcc, quello presentato dall’Onu nei mesi passati e sposato in pieno dall’Unione Europea, si può dimostrare che raddoppiando il contenuto attuale di CO2, con associato un aumento di temperatura maggiore di due gradi centigradi, la circolazione termoalina si bloccherebbe completamente.

Il tallone d’Achille

Purtroppo, sperimentalmente è difficile dimostrare con i dati oggi a disposizione questo interessante ruolo dell’acqua mediterranea. Tuttavia, sulla base di simulazioni numeriche, si è stabilito che l’area del Nord Atlantico, in particolare quella del Mar di Labrador, è il tallone d’Achille dell’intera circolazione oceanica. Se in quella zona si bloccano i processi convettivi, il clima del Nord Europa va a rotoli, definendo uno scenario finale di una nuova era glaciale. La causa è legata allo scioglimento dei ghiacciai artici, che immetterebbero nel nord Atlantico un’enorme quantità di acqua dolce e una conseguente riduzione del contenuto di sale delle acque superficiali nel Mar di Labrador, che porterebbe ad una catastrofica riduzione della circolazione termoalina e relativa distribuzione della conveyor belt globale. Al ritmo attuale di scioglimento dell’Artico, inclusa la Groenlandia, uno scenario del genere si potrebbe raggiungere in un centinaio di anni. Comunque, quell’area potrebbe essere risparmiata dall’intervento della nostra acqua mediterranea: come il glorioso settimo cavalleggeri, potrebbe emergere dagli abissi oceanici nel Nord Atlantico, alimentando le acque superficiali della quantità di sale e calore necessari per innescare nuovamente il motore del ‘nastro trasportatore oceanico’. Nastro improvvisamente inceppatosi a causa dello scioglimento dei ghiacci. Infatti, a quelle latitudini l’acqua mediterranea tende ad emergere perché le sue caratteristiche fisiche glielo permettono.

In conclusione

Se i cambiamenti climatici continueranno il nostro bacino mediterraneo si troverà ad essere nei guai e molto vulnerabile. Possiamo, forse, consolarci pensando che il nostro sacrificio potrà essere utile a mitigarne gli effetti dei cambiamenti climatici ai poveri inglesi, riducendo loro la probabilità di avere inverni molto ma molto freddi.

Vincenzo Artale, Capo dell'Unità di modellistica oceanografica dell'Enea

(Fonte: Left)

 

 




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