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editoriale

SE IL CLIMA, CHE CAMBIA, UCCIDE L'AFRICA
di Wangari Maathai
Premio Nobel per la Pace 2004, membro del Parlamento del Kenya
Fondatore del Green Belt Movement

Comitato d'Onore Green Cross International

L’Africa è il continente che sarà colpito più duramente di tutti dal cambiamento del clima. Piogge ed inondazioni inimmaginabili, siccità prolungate, conseguenti raccolti andati a male, rapido processo di desertificazione – volendo citare soltanto alcuni dei sintomi del riscaldamento globale – di fatto hanno già iniziato ad alterare l’aspetto del continente africano. I più poveri ed i più vulnerabili tra gli abitanti di questo continente saranno particolarmente colpiti dagli effetti delle temperature in aumento: in alcune aree dell’Africa le temperature sono salite ad un ritmo doppio rispetto al resto del pianeta. Nei paesi ricchi, l’incombente crisi climatica è motivo di preoccupazione, in quanto essa avrà un impatto sia sul benessere economico sia sulla vita delle popolazioni. In Africa, però, regione che non ha contribuito quasi in nulla al cambiamento del clima (le sue emissioni di gas serra sono irrilevanti rispetto a quelle di altre zone industrializzate del pianeta), la crisi climatica determinerà la vita o la morte. Di conseguenza, l’Africa non deve tacere a fronte delle realtà del cambiamento climatico e delle sue cause. I leader africani e la società civile africana devono essere coinvolti nel processo decisionale globale su come affrontare e risolvere la crisi del clima, con metodi efficaci ed al contempo equi. Per questo motivo, quando i capi di Stato del G8 si sono incontrati all’inizio di giugno a Heiligendamm in Germania, ho inviato loro un appello nel quale sollecitavo i Paesi industrializzati a dare il buon esempio, essendo essi inoltre i principali responsabili del cambiamento del clima. Ora, quindi, i leader dei Paesi industrializzati devono intraprendere i passi decisivi e risolutivi volti a contrastare il cambiamento del clima. Essendo inoltre loro i principali inquinatori, i Paesi industrializzati hanno altresì la responsabilità di aiutare l’Africa a ridurre la sua vulnerabilità e ad aumentare i finanziamenti, rendendoli costanti nel tempo ed affidabili, destinati alle prime vittime della crisi del clima, in Africa ed in altre regioni in via di sviluppo. Sappiamo che tra ambiente, governance e pace esiste un legame preciso molto profondo ed è essenziale pertanto che la nostra definizione di pace e la sicurezza siano allargate fino ad includervi una gestione consapevole e responsabile delle limitate risorse della Terra, come pure una loro spartizione più equa. Il cambiamento del clima rende quanto mai impellente la necessità di tale ridefinizione. Affinché gli esseri umani utilizzano e condividano in modo più equo e giusto le risorse che la Terra offre, i sistemi di governo devono essere maggiormente dinamici ed inclusivi. La popolazione deve provare un senso di appartenenza. Le voci delle minoranze devono essere ascoltate, anche se poi sarà la maggioranza a decidere. Sono necessari sistemi di governo che rispettino i diritti umani e la legalità, e promuovono spontaneamente l’equità. Molti dei conflitti e delle guerre si combattono per avere accesso o il controllo o la distribuzione di risorse quali acqua, carburanti, terreni da pascolo, minerali e terra. Del resto, è sufficiente pensare al Darfur: negli ultimi decenni il deserto del Sudan Occidentale si è ampliato a causa della siccità e di piogge occasionali, fattori imputabili al cambiamento del clima. Di conseguenza, i coltivatori e gli allevatori si sono scontrati per contendersi la poca terra arabile e l’acqua, mentre leader privi di scrupoli hanno approfittato di questi conflitti per scatenare violenze di massa. Sono state uccise centinaia di migliaia di persone. Molte di più sono profughe tra vere e proprie campagne di intimidazione, stupro di massa e rapimenti. Gestendo meglio le risorse, riconoscendo il rapporto che esiste tra gestione sostenibile delle limitate risorse e conflitti, avremo invece maggiori probabilità di prevenire le cause profonde delle guerre civili e delle guerre in generale, e di conseguenza creeremo un mondo più pacifico e più sicuro. L’ambiente, in ogni caso, si degrada poco alla volta e la maggioranza delle persone potrebbe non accorgersene: se sono povere, egoiste o avide, potrebbero essere troppo concentrate sulla propria sopravvivenza o sulla necessità di soddisfare le proprie necessità più immediate ed i propri desideri e non preoccuparsi per le conseguenze delle proprie azioni. Sfortunatamente, la generazione che distrugge l’ambiente potrebbe non essere la medesima che ne pagherà le conseguenze. Saranno le generazioni future a dover affrontare le conseguenze delle azioni devastatrici dell’attuale generazione. La responsabilità di affrontare i problemi, di fronte ai quali ci troviamo, – ivi compresa la crisi del clima – in tempo utile per il bene comune impone ai governi una volontà politica visionaria, ed al mondo delle corporation una responsabilità sociale. Per quanto concerne il clima siamo chiamati tutti a fare qualcosa di concreto. Molti Paesi, che hanno vaste foreste ed una considerevole copertura di vegetazione, proteggono la loro biodiversità e godono di un ambiente sano e pulito. Alcuni di loro, però, si dedicano ad un accanito disboscamento ed abbattimento di alberi o attingono alla biodiversità lontano dai propri confini. E’ pertanto estremamente importante iniziare a considerare il nostro pianeta un tutt’uno ed adoperarci a proteggere l’ambiente non soltanto a livello locale, ma soprattutto a livello globale. Le pressioni, per sacrificare le foreste e far spazio per gli insediamenti umani, l’agricoltura o l’industria, sono continue e non potranno che aumentare in un mondo surriscaldato nel quale il clima è sempre più instabile. Da un punto di vista politico, è estremamente più conveniente ed opportunistico sacrificare il bene comune a lungo termine e la responsabilità intergenerazionale per la convenienza ed i vantaggi del presente. Ma dal punto di vista morale è nostro dovere agire per il bene collettivo. Abbiamo la responsabilità di salvaguardare i diritti delle generazioni, di tutte le specie, che non sono in grado di farsi sentire. La sfida globale del cambiamento ci impone di non pretendere niente meno di questo, dai nostri leader come da noi stessi.

Wangari Maathai, Premio Nobel per la Pace 2004, è membro del Parlamento del Kenya e fondatore del Green Belt Movement (Fonte: La Repubblica – copyright Ips Columnist Service; traduzione di Anna Bissanti)



PENISOLA TROPICALE
di Mario Tozzi

Geologo - Ricercatore CNR

Al di là di ogni ragionevole dubbio, il caldo micidiale di questi giorni ci pone di fronte scenari a tinte forti che rischiano di trasformare perfino la nostra indole mediterranea. Altre volte le estati sono state afose e spesso il tempo è stato bizzarro, ma oggi sono i dati a darci l’esatto conto del cambiamento climatico in atto, al di là delle nostre singole percezioni del caldo. L’Italia è già praticamente spaccata in due: le regioni meridionali stanno subendo una perdita irreversibile di terreni utili alle colture, progressivamente distrutti dagli sprechi agricoli e dalla siccità. Siccome per formare un solo centimetro di suolo ci vogliono 200 anni - e ne occorrono almeno 15 per coltivare - l’unica soluzione sarà quella di abbandonare le campagne del Sud alla desertificazione. Al Nord (se si eccettua l’isola per ora felice di Torino) almeno piove, ma l’acqua che in passato cadeva in una settimana, si rovescia adesso in un paio d’ore. Si rovescia su città di asfalto e cemento e finisce direttamente nei fiumi senza riuscire ad alimentare le falde profonde. Acquazzoni tropicali li avremmo chiamati, se non ci trovassimo ben lontani dai tropici. Ai litorali, lungo i quali un tempo si cercava riparo dal solleone, bisogna accedere ormai con attenzione: la temperatura dell’acqua superficiale del Mediterraneo centrale è, infatti, salita in modo anomalo rispetto alle consolidate medie ventennali che pure riportavano un incremento di 0,6°C ogni dieci anni (contro gli 0,3°C degli altri oceani). Nella scorsa primavera un picco di 3°C in più rispetto agli anni precedenti ha conferito al Mare Nostrum temperature da Golfo del Messico. Vista la massa d’acqua più limitata non si scatenano cicloni tropicali, ma le trombe d’aria e quelle marine raggiungono una frequenza settimanale e i danni rischiano di essere molto più gravi di quelli descritti da Machiavelli nel 1456 (un ‘turbine spaventoso’ che spazzò l’intera catena appenninica da Ancona fino in Toscana). L’accoppiata piogge tropicali e trombe d’aria spinge a ritirarsi nelle proprie abitazioni, magari per un recupero della siesta, al riparo dell’aria condizionata sparata a temperature bassissime, con il non trascurabile effetto di surriscaldare l’aria già rovente delle metropoli e costringere, dunque, tutti a installare climatizzatori più potenti in un circolo vizioso di cui non si vede la fine. Se per caso, invece, osiamo sfidare gli oltre 40°C delle ore meridiane e mettiamo il naso sott’acqua, non è infrequente la vista di barracuda di oltre un metro - una volta esclusivamente tunisini - che si aggirano per le coste tirreniche attratti dai bagliori degli oggetti metallici dei bagnanti; e poi pesci serra, pesci balestra, pesci pappagallo, per non dimenticare alghe come la Caulerpa, che tende a erodere il regno della benefica Posidonia. ‘Ospiti caldi’ si sono sempre susseguiti nel Mare Nostrum, ma oggi tutto questo avviene molto più rapidamente, grazie all’apertura di canali artificiali come quello di Suez (migrazioni lessepsiane). Siccome le specie del Golfo Persico sono molto più abituate alla competizione rispetto a quelle che risiedono nel Mediterraneo (1.500 specie contro 550), non c’è da meravigliarsi che prevalgano, quando la temperatura sale a sufficienza. Anche la dieta subirà contraccolpi, così come lo sci e il golf destinati a scomparire e ad essere sostituiti dal trekking d’altura e da sport che possano essere praticati di notte. Quello che era il regno candido della neve diventerà il regno delle frane e dei torrenti, come già fanno presagire i numerosi crolli di cime anche famose nelle Alpi meridionali. Sarà vietato (come già avviene in molte città degli Stati Uniti) lavare la macchina e annaffiare il giardino (se non con acqua riciclata) e si consiglierà di non esporsi alle radiazioni ultraviolette, ormai malamente filtrate, nelle ore centrali della giornata. Il riscaldamento anomalo dell’acqua del mare fa già gonfiare gli oceani e la fusione dei ghiacciai (quelli dolomitici spariranno nei prossimi quarant’anni, tutti quelli alpini in poco più), indotta dalle temperature roventi, contribuisce ad un cospicuo innalzamento del livello dei mari. Di conseguenza circa 4.500 kmq di coste italiane saranno invasi dalle acque e si riformeranno paludi dove oggi ci sono terreni agricoli. Le alluvioni saranno più frequenti e avranno carattere improvviso (come il recente caso di Torino), ma i fiumi resteranno comunque secchi per mesi, salvo trasformarsi in micidiali muri d’acqua per qualche ora. Forse avremmo dovuto diminuire le emissioni di gas-serra e cambiare qualcosa del nostro stile di vita, ma non è meglio una bella vacanza ai tropici senza spostarsi da casa?

Mario Tozzi, geologo - ricercatore Cnr
(Fonte: La Stampa.it)






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