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editoriale

CAMBIAMENTI CLIMATICI E SICUREZZA
DELL'ACQUA

di Mikhail Gorbaciov e Jean-Michel Severino


Il gruppo di esperti dell’IPCC ha recentemente pubblicato dei dati allarmanti sulle conseguenze del riscaldamento del nostro pianeta in alcune tra le regioni più povere del mondo. Entro il 2100, da uno a tre miliardi di persone soffriranno per la scarsità dell’acqua. Il riscaldamento della Terra aumenterà l’evaporazione e ridurrà, drasticamente, le precipitazioni fino al 20% in Medio Oriente e nel Nord Africa, e la razione d’acqua disponibile pro capite, in queste regioni, diminuirà, senza dubbio, del 50% da oggi fino alla metà del secolo.

Questa brusca diminuzione di un elemento, alla cui importanza simbolica e spirituale, si abbina il suo ruolo fondamentale nella vita dell’umanità, provocherà tensioni ed esacerberà i conflitti nel mondo intero. L’Africa, il Medio Oriente e l’Asia centrale saranno i primi ad esserne coinvolti. Ma le ripercussioni saranno mondiali.

Questa visione negativa, non è né una scusa per l’apatia, né per il pessimismo. I conflitti sono, forse, inevitabili, ma le guerre non lo sono.  La nostra capacità di impedire le ‘guerre dell’acqua’ dipenderà dalla nostra capacità collettiva di prevedere le tensioni, di trovare le soluzioni tecniche ed istituzionali per controllare i conflitti emergenti. La buona notizia è che le soluzioni esistono e che mostrano la loro efficacia ogni giorno.

Le dighe, se sono della giusta dimensione e sono costruite correttamente, possono contribuire allo sviluppo dell’umanità, nella lotta contro il cambiamento climatico e nel regolamentare l’approvvigionamento dell’acqua. Pertanto, nel nuovo contesto di penuria, le infrastrutture all’interno di corsi d’acqua internazionali, possono avere un effetto sulla qualità dell’acqua o sulla disponibilità per gli Stati confinanti, e provocare, così, tensioni.

Le organizzazioni dei bacini dei fiumi, come quelli del Nilo, del Niger o del Senegal, possono facilitare il dialogo tra gli Stati che si spartiscono le risorse idriche. Condividendo una visione comune per lo sviluppo delle vie navigabili internazionali, queste iniziative di cooperazione regionale tendono verso la proprietà comune della risorsa, riducendo, così, il rischio che le dispute per l’utilizzazione dell’acqua non degenerano e non cadano nella violenza.

La maggior parte delle vie navigabili internazionali dispone di queste strutture di dialogo, naturalmente a differenti stadi di sviluppo e diversi livelli di risultato. Se dobbiamo prendere le previsioni sul riscaldamento climatico seriamente, la Comunità internazionale deve rafforzare queste iniziative. Là dove non esistono, devono essere realizzate con la concertazione tra tutti i paesi coinvolti. Un aiuto ufficiale allo sviluppo può incoraggiare la collaborazione, finanziando la raccolta dei dati, fornendo know how tecnico o, anche, vincolando i prestiti a trattative costruttive.

Tuttavia, i conflitti internazionali per l’acqua non sono che una parte del problema. Le ‘guerre dell’acqua’, le più violente, si sviluppano, oggi, all’interno piuttosto che all’esterno degli Stati.
La penuria dell’acqua genera lotte etniche, perché le Comunità cominciano a temere per la loro sopravvivenza e cercano di prendere possesso di questa risorsa. Nel Darfour, la siccità ricorrente ha avvelenato le relazioni tra gli agricoltori e pastori nomadi, e la guerra, alla quale noi assistiamo, impotenti, oggi, segue anni di escalation del conflitto. E il Ciad rischia di cadere nello stesso ciclo di violenza.

E’, dunque, urgente, soddisfare i bisogni fondamentali delle popolazioni mediante iniziative di sviluppo locali. Progetti idraulici rurali, che assicurino l’accesso all’acqua a queste popolazioni su grandi estensioni di terre, possono essere dei buoni strumenti nella prevenzione dei conflitti. Corridoi di pascoli sicuri possono essere individuati con l’aiuto delle immagini dei satelliti moderni, per orientare i nomadi e le loro greggi verso le zone più appropriate. Queste iniziative forniscono rare occasioni di dialogo e di collaborazione tra le Comunità rivali. La chiave è di prevedere la necessità di agire, prima che le tensioni degenerino fino al punto di non ritorno.

E’ necessario, anche, occuparsi del consumo dell’acqua. L’agricoltura è responsabile di oltre il 70% del consumo di acqua nel mondo. La ricerca agronomica e le innovazioni tecnologiche sono cruciali per massimizzare l’efficienza dell’acqua in questi settori, e devono essere maggiormente sviluppate. Ciò detto, trattare il problema della penuria dell’acqua implicherà, inevitabilmente, di rivedere le pratiche e le politiche agricole nel mondo intero per assicurargli la sostenibilità.

La sfida per lo sviluppo non consiste più, soltanto, nell’apportare l’acqua ai terreni agricoli nelle regioni più sfavorite. Come illustra la riduzione drammatica del mare d’Aral, del lago del Ciad e del mar Morto, consiste, oggi, nel preservare le rare risorse naturali e nell’assicurare una loro distribuzione equa per soddisfare i bisogni conflittuali. Un utilizzo responsabile richiederà degli sforzi economici appropriati. In Africa dell’ovest o in Medio Oriente, in Asia centrale o in India, ciò può, anche, contribuire a ridurre i conflitti per l’acqua.

Considerando l’ampiezza senza precedenti della minaccia, è necessario dargli la giusta importanza. La guerra fredda ha conosciuto un epilogo pacifico grazie al realismo, alla previdenza ed alla forza di volontà. Queste tre qualità devono essere messe a disposizione se si vuole evitare, al nostro pianeta, grandi ‘guerre d’acqua’. Questa sfida mondiale esige, anche, un’innovazione in tema di governo mondiale, ragione per la quale noi sosteniamo la creazione di una Agenzia dell’ambiente dell’Onu, dotata di risorse giuridiche e finanziarie necessarie per affrontare i problemi che si presentano.

L’umanità deve cominciare a risolvere questo dilemma dell’acqua. L’attesa non fa parte della soluzione.

Mikhail Gorbachev, Chairman of the Board of Green Cross International
Jean-Michel Severino, direttore dell’Agenzia per lo sviluppo francese.

(Copyright: Project Syndicate 2007)



CLIMATE CHANGE 2007
di Lucia Sirocchi, naturalista - Explora Scuola


Il clima sulla Terra non è sempre stato quello che conosciamo e se nel medio evo si coltivava la vite e si produceva il vino anche in Gran Bretagna non dovremmo essere eccessivamente preoccupati per l’invasione del Mediterraneo ad opera delle cosiddette specie “aliene”, pesci, molluschi e altri invertebrati marini tipici dei mari tropicali che, negli ultimi anni, hanno colonizzato il mare nostrum spesso a danno delle specie autoctone.

Il pianeta nella sua storia è andato incontro a periodiche modificazioni del clima: è noto a tutti il passaggio attraverso le diverse ere glaciali alternate ad epoche più calde così come è sotto gli occhi di tutti che clima di una regione sia soggetto a cambiamenti temporali, anche con periodi di breve durata del tutto comparabili con la vita di un essere umano.

Meno noti sono, invece, fenomeni come la “piccola glaciazione”, un brusco abbassamento delle temperature nell’emisfero settentrionale che fino ai primi dell’ottocento trasformava il Tamigi in teatro di fiere sul ghiaccio durante le gelate invernali, o il precedente “periodo medievale” circa 500 anni di clima relativamente caldo nella regione del Nord Atlantico che ha consentito appunto la coltivazione della vite in Inghilterra. Entrambi gli eventi sono spesso citati come emblemi della variabilità naturale del clima per smentire le attuali preoccupazioni sul riscaldamento globale: episodi analoghi sono già accaduti in passato e quindi, visto che sono poi regrediti senza alcuna conseguenza, non c’è un ragionevole motivo per considerare anomalo il comportamento attuale del clima.

Il problema è però di natura diversa: le cause della variabilità climatica, a partire dalla rivoluzione industriale, possono essere riconducibili in gran parte all’attività umana. Ed è proprio con lo scopo di fare periodicamente il punto sullo stato di conoscenze relative ai cambiamenti climatici che nel 1998, ad opera dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale e del Programma Ambientate delle Nazioni Unite, nasce l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) che ha il compito di fornire le informazioni scientifiche sui rischi provocati dai cambiamenti climatici indotti dall’uomo.

L’IPCC è composto da tre gruppi di lavoro e da una Task Force, il primo gruppo valuta gli aspetti scientifici del clima e dei cambiamenti climatici, il secondo la vulnerabilità dei sistemi socio-economici e naturali, il terzo valuta le possibili mitigazioni mentre la Task Force è responsabile dell’IPCC National Greenhouse Gas Inventories Programme.

L’attività principale dell’IPCC è quella di produrre valutazioni periodiche sulle conoscenze nel campo dei cambiamenti climatici. Il primo report dell’IPCC, completato nel 1990, è stato fondamentale per la redazione della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, un trattato ambientale internazionale prodotto dalla Conferenza sull'Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite del 1992, più nota come Summit di Rio.

Il secondo report, Climate Change 1995, ha portato all’adozione del Protocollo di Kyoto nel 1997. Il terzo report è stato completato nel 2001 e il quarto rapporto, presentato nell'ambito della Conferenza internazionale sul clima e l'ambiente tenutasi a Parigi il 2 e 3 febbraio, è stato pubblicato quest’anno.

Da quest’ultimo rapporto emerge che “il riscaldamento del clima è inequivocabile, come è evidente dall’aumento della temperatura dell’atmosfera e degli oceani, dallo scioglimento di neve e di ghiacci e dall’aumento del livello medio del mare.
Le concentrazioni di CO2, NH4 e N2O sono oggi di gran lunga superiori ai valori precedenti al 1970 e questo aumento è dovuto all’attività umana. Ma accanto ai gas serra ci sono numerosi altri fattori, di carattere sia naturale che antropico, che possono influenzare il bilancio energetico del nostro pianeta.

Nonostante i grandi progressi fatti nell’acquisizione e nell’elaborazione dei dati a disposizione attraverso sofisticate elaborazioni statistiche la complessità delle interazioni che governano il clima e la mancanza di comprensione del ruolo di molte componenti impediscono di prevedere con precisione il futuro del clima globale.

Anche la previsione degli impatti sui sistemi naturali risente di queste incertezze.

Il terzo rapporto si era concluso affermando che le recenti variazioni regionali di temperatura avevano avuto con “alta probabilità” impatti su molti sistemi fisici e naturali, e per “alta probabilità” si intendeva una probabilità di 8 su 10.

Il quarto rapporto fornisce informazioni più specifiche su una più ampia gamma di settori di futuri impatti. Negli ultimi 5 anni sono state raccolte molte prove che indicano che i cambiamenti osservati in molti sistemi biologici (migrazione degli uccelli, anticipo dei fenomeni primaverili, deposizione delle uova, ecc) sarebbero riconducibili all’aumento delle temperature per cause antropiche.

Una nuova e preoccupante previsione, non presente nel terzo rapporto, è quella che riguarda la resilienza degli ecosistemi, ovvero la capacità di autoripararsi dopo aver subito un danno. I sistemi naturali sono, infatti, capaci di assorbire i cambiamenti dell’ambiente che li circonda ma solo fino ad un certo punto oltre il quale il sistema collassa e si trasforma in modo definitivo.

E’ probabile (High confidence = alta probabilità) che entro la fine del secolo questo punto venga superato in molti ecosistemi a causa dell’azione combinata dei cambiamenti climatici, dei disturbi riconducibili a questi cambiamenti (come inondazioni, siccità, incendi, acidificazione degli oceani) e di altri fattori sempre di natura antropica come l’inquinamento o lo sfruttamento eccessivo delle risorse. Il superamento della resilienza di questi ecosistemi, altamente probabile se il tasso di emissione di gas serra e gli altri disturbi dovessero rimanere costanti o aumentare, ne altererebbe la struttura e ridurrebbe irreversibilmente la biodiversità.




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