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editoriale

ITALIA TRA I PAESI PIU' ESPOSTI AI DANNI
DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

di Alfonso Pecoraro Scanio


Noi siamo, assieme a Spagna, Portogallo e Grecia, i più esposti ai danni dei cambiamenti climatici. Noi abbiamo la maggiore convenienza, tra i paesi industrializzati, ad agire subito.
Riportando all’Italia le stime del rapporto Stern sull’inazione si evince che nell’ipotesi ormai ampiamente superata che la temperatura globale cresca solo di 1,5 gradi, nel nostro paese, i costi per far fronte ai danni prodotti dai cambiamenti climatici sono 50 miliardi di euro all’anno. Nella situazione più catastrofica prevista a livello globale dal rapporto (crescita di 6 gradi di temperatura), i costi salirebbero in maniera esponenziale. Per mettere in campo le azioni che permettono di tagliare le nostre emissioni di gas serra, ci servono da 3 a 5 miliardi l’anno.
Predisporre le misure di adattamento costa da 1 miliardo e mezzo a 2 miliardi di euro l’anno.
La differenza tra quello che ci costa non agire e quello che ci costa agire è tra 10 e 40 volte maggiore a favore dell’azione: da 5 a 7 miliardi contro un costo minimo dell’inazione di 50 miliardi. E prima si fa meno ci costa..

MITIGAZIONE E ADATTAMENTO SONO POLITICHE DA INTEGRARE
La strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici, che agisce sulle cause dei cambiamenti del clima, ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra provenienti dalle attività umane per eliminarne l’accumulo in atmosfera, accumulo che, per le caratteristiche che hanno questi gas di trattenere il calore, determina una variazione del clima.
La mitigazione si può fare a livello globale, con patti e politiche internazionali, perché l’atmosfera è di tutti, non conosce frontiere e così non ne conoscono i fenomeni che si innescano con la crescita delle temperature. La mitigazione si fa a livello nazionale rispettando gli impegni presi e facendo in modo che se ne assumano ulteriori.
La strategia di adattamento, che agisce sugli effetti dei cambiamenti del clima, ha l’obiettivo di minimizzare le conseguenze negative e di prevenire i danni riducendo la vulnerabilità territoriale e quella socio economica ai cambiamenti del clima, e sfruttando, ove possibile, nuove opportunità di sviluppo socio economico che dovessero sorgere con i cambiamenti climatici: un’ipotesi, come abbiamo visto, molto più probabile nel nord dell’Europa che non da noi. L’adattamento è un insieme di politiche e di scelte su scala nazionale e locale. Senza trascurare l’impegno internazionale, la politica globale, e fornendo ai paesi meno ricchi le risorse per adattarsi a loro volta a un cambiamento climatico di cui rischiano di essere le prime vittime.
Saranno i governi e le amministrazioni locali a gestire le regole e i fondi per costruire infrastrutture, a prova di clima, che cambia e soprattutto a ripensare al modo di fare gli interventi.
L’idea di fondo è: meno cemento e più sostegno alla capacità naturale di difesa degli ambienti sani. Una costa cementificata in maniera selvaggia non è un ambiente sano, lo è una duna costiera, e anche un ambiente costruito in maniera naturale, light.
La parola d’ordine per l’adattamento è: interventi naturali, light. In una parola, adattamento sostenibile.

MITIGAZIONE SENZA SE E SENZA MA
La prima cosa da fare è ridurre le emissioni, non ci sono scappatoie. È una politica globale, ma ognuno deve fare la sua parte. Occorre riportare in equilibrio il sistema climatico tra emissioni globali e assorbimenti globali, per evitare che il clima impazzisca. Oggi, solo in termini di anidride carbonica, il più comune dei gas serra, vengono emessi a livello mondiale tra 26 e 28 miliardi di tonnellate l’anno.
Con il trend attuale nel 2050 ci saranno 90 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in giro per l’atmosfera. Le emissioni mondiali continuano a crescere e nello stesso tempo aumenta l’urgenza di tagliare le emissioni. Il pianeta, con le foreste e gli oceani, è in grado di assorbire oggi solo 12 miliardi di tonnellate di CO2, il 40%. In futuro le capacità di assorbimento diminuiranno, perché più aumenta il riscaldamento più i sistemi naturali che catturano l’anidride carbonica si indeboliscono.
Nel Mediterraneo, lo scorso inverno l’assorbimento della CO2 è sceso del 30% perché la temperatura del mare era di 2 gradi sopra la media. E’ urgente tagliare le emissioni. Il processo ci potrebbe sfuggire di mano, diventare incontrollabile.

EMISSIONI, IL CAMMINO CHE RESTA DA FARE
L’Italia ha accumulato 10 anni di ritardo. Per colmare questo gap non basta la prima inversione di tendenza nelle emissioni dei gas serra che secondo le stime preventive dell’APAT c’è stata nel 2006: si tratta dell’1,5% in meno rispetto al 2005, in buona parte dovuta all’inverno caldo e all’estate mite dello scorso anno. E’ stato un segnale importante, ma occorre un impegno massiccio. Nei 10 anni che ci separano dalla firma del protocollo di Kyoto, l’Italia invece di ridurre come era nei patti le emissioni di gas serra del 6,5% rispetto al 1990, le ha aumentate del 12,1%.
Non siamo in regola con il piano nazionale di allocazione dei permessi di emissione: ritardi, reticenze, scelte miopi anche da parte del sistema industriale. Tutto questo non conviene da nessun punto di vista, né da quello politico, né per quanto riguarda il nostro peso internazionale, né per il sistema economico.

L’ITALIA VERSO BALI
Sulle emissioni la posizione dell’Unione Europea è la più avanzata, e allo stesso tempo è la più realista. La riduzione del 20% delle emissioni al 2020 e del 60% entro il 2050 è un obiettivo di buon senso. Limita il riscaldamento del pianeta a 2 gradi, un limite ultimo perché le conseguenze – sebbene siano comunque gravi – rimangano prevedibili, controllabili attraverso piani di adattamento e non irreversibili. A non essere di buon senso quelli che vogliono continuare a fare come se niente fosse in termini di produzioni inquinanti, di auto, di stile di vita, come se poi pagasse qualcun altro. Non è così, stiamo pagando da ora in termini di abitabilità del pianeta, di vite umane, di soldi.
Andremo a Bali, alla tredicesima conferenza delle parti che hanno firmato la Convenzione sui cambiamenti climatici, a sostenere con forza la posizione dell’Unione Europea che si è impegnata già da subito a ridurre le emissioni di gas serra del 20% e che si sta preparando (a partire dalla riunione di Vienna) con gli scenari di fattibilità economica alla mano a lanciare riduzioni più drastiche, fino al 40% entro il 2020.
Andremo a Bali a negoziare il prossimo patto, Kyoto 2, non solo per quanto riguarda i tagli di emissioni da fare, ma anche le regole per farli. Chi (quali paesi, quali settori) deve avere limiti di emissioni; chi deve essere aiutato di più, concedendo tempi e margini; come aggiustare e ampliare il meccanismo del ‘trade’, magari spostando il tiro dagli interventi che valutano e attribuiscono un prezzo alle emissioni per passare a interventi specifici sull’uso dell’energia fossile, con la conseguente possibilità di cambio/commercializzazione di ogni azione di risparmio della CO2 (in maniera da coinvolgere una platea la più ampia possibile), con meccanismi premianti e penalizzanti.

L’ADATTAMENTO SOSTENIBILE E’ COME LA LOTTA BIOLOGICA
La verità è che per l’Italia agire per l’adattamento significa mettere in sicurezza in primo luogo i nostri guai storici: il rischio idrogeologico, la difesa delle coste, lo spreco delle risorse idriche. Si tratta di politiche e di azioni che sono o dovrebbero già essere in corso: gli ostacoli vengono anche dai meccanismi di blocco non selettivo degli investimenti ambientali decisi nella scorsa legislatura.
C’è un paradosso tutto italiano: a differenza di molti paesi europei dobbiamo fare la maggior parte delle politiche della messa in sicurezza del territorio. Dobbiamo farle ora, tenendo conto dei limiti più alti posti dalle azioni di adattamento. Possiamo e dobbiamo utilizzare l’adattamento per realizzare la messa in sicurezza del territorio di cui da anni si parla.
Ma c’è di più: l’unico adattamento che funziona è quello sostenibile. La lotta biologica al cambiamento climatico, cioè il restauro ecologico, non l’artiglieria pesante. Alt alle inutili cattedrali di cemento, alle devastanti dighe faraoniche, alle enormi massicciate che contengono i versanti franosi. Via libera ad interventi strutturali sostenibili, a tecniche dolci come quelle dell’ingegneria naturalistica. Si potrebbero fare netti risparmi sui fondi per la difesa del suolo: dagli oltre 40 miliardi di euro che oggi si ritengono necessari per mettere in sicurezza il suolo, la vita e i beni degli italiani, si passerebbe a una spesa ben più bassa, dell’ordine di 8 miliardi di euro. Un risparmio che fa bene all’ambiente, risulta anche più efficace ma soprattutto consente un numero enormemente maggiore di interventi.
L’esempio migliore è quello dell’Arno. Nel bacino fluviale erano previste opere strutturali per 1 miliardo e 600 milioni di euro. La nuova programmazione leggera ha ridotto questa cifra a 200 milioni di euro, l’80% in meno. La Regione Toscana e il ministero dell’Ambiente hanno adottato questa nuova programmazione e la messa in sicurezza si farà muovendosi attorno a questa filosofia e a questi investimenti.
Il punto è che i soldi necessari ci devono essere, e ci devono essere da ora. Devono essere finalizzati a vere azioni di messa in sicurezza del territorio e non ad azioni che danneggiano il territorio.
Spero che alla fine della Conferenza nazionale ci sarà un ‘manifesto per il clima, una strategia per l’adattamento sostenibile e la sicurezza ambientale’, un impegno che vorrei fosse sottoscritto dal governo.

Alfonso Pecoraro Scanio, Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare

(Fonte: greenreport)



IL RISCALDAMENTO GLOBALE E' INEQUIVOCABILE
di Filippo Giorgi

Il 12 e 13 settembre si è tenuta a Roma la Conferenza Nazionale sui Cambiamenti Climatici. Sono stati due giorni molto importanti in un anno che ha visto finalmente una presa di coscienza globale della gravità della situazione. Il 2 febbraio scorso, infatti, il Pannello intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) ha reso pubbliche in una conferenza stampa a Parigi le sue conclusioni dopo sei anni di lavori e contributi di circa 850 esperti internazionali provenienti da oltre 50 Paesi. Attesa da più di 400 giornalisti e 50 reti televisive provenienti da tutto il mondo, questa conferenza stampa ha rappresentato una svolta nella percezione pubblica del problema dei cambiamenti climatici. Per la prima volta la comunità scientifica, rappresentata dal suo più autorevole organismo (per l’appunto l’Ipcc), ha dichiarato: “Il riscaldamento globale è inequivocabile, come comprovato dall’aumento della temperatura media globale dell’atmosfera, dallo scioglimento di neve e ghiacciai e dall’aumento del livello globale del mare”. Il riscaldamento globale negli ultimi 100 anni è stato di circa 0,74 °C (+/- 0,18%) e mostra un’accelerazione nelle ultime decadi. L’innalzamento del livello del mare dal 1880 è stato di circa 20 cm, tutti i maggiori ghiacciai sono in fase di recessione, e altri cambiamenti climatici sono in corso. Fra questi un aumento di ondate di calore e fenomeni siccitosi e un aumento dell’intensità di cicloni e precipitazioni.
Che cosa sta causando questi cambiamenti climatici? Sulla base di dettagliati studi di attribuzione, l’Ipcc conclude: “E’ molto probabile (90-95 per cento) che l’aumento delle concentrazioni di gas serra in atmosfera, dovuto ad attività umane, abbia causato la maggior parte del riscaldamento globale osservato dalla metà del Ventesimo secolo”. I principali gas serra di origine antropica sono l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e l’ossido di azoto (N2O). Questi gas hanno la proprietà di assorbire parte della radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e, anche tramite complesse interazioni con il sistema climatico, portano al riscaldamento di atmosfera ed oceani. I gas serra vengono emessi principalmente dall’uso di combustibili fossili e da diverse attività agricole. La loro concentrazione, in atmosfera, ha subito un rapido incremento dall’inizio della rivoluzione industriale ed ha raggiunto livelli molto maggiori che negli ultimi 650.000 anni.
Cosa possiamo quindi aspettarci per il futuro? Nel 2000, l’Ipcc ha elaborato una serie di ‘scenari’ di emissione di gas serra per il Ventunesimo secolo basati su diverse assunzioni di sviluppo socio-economico e tecnologico. Questi scenari sono stati inseriti in complessi modelli matematici del clima sviluppati da più di venti laboratori nel mondo, i quali hanno prodotto delle proiezioni di cambiamenti climatici. Queste ci dicono che il riscaldamento globale per la fine del secolo attuale potrebbe variare da 1,1 gradi nell’ipotesi più ottimistica a più di 6 gradi in quella più pessimistica, cioè in quella in cui essenzialmente non si prenda nessuna misura per ridurre le emissioni di gas serra. In particolare, quest’ultima ipotesi potrebbe avere effetti devastanti sul pianeta, come lo scioglimento di ghiacciai e calotta polare artica, un forte innalzamento del livello del mare, il generale inaridimento dei continenti, l’aumento di ondate di caldo, l’aumento dell’intensità dei cicloni tropicali e fenomeni alluvionali. All’interno di questo quadro generale, l’area del Mediterraneo appare particolarmente vulnerabile al riscaldamento globale. I modelli ci dicono che, specialmente nelle stagioni primaverile ed estiva, la regione mediterranea dovrebbe scaldarsi molto più della media globale e dovrebbe ricevere una forte riduzione di precipitazione, con conseguente generale inaridimento del suolo. Estati come quella drammatica del 2003, che causò in Europa decine di migliaia di vittime, i peggiori raccolti delle ultime decadi e incendi su vasta scala, diventano la norma in questi scenari futuri.
Un riscaldamento globale estremo avrebbe conseguenze anch’esse devastanti in diversi settori della società, come la gestione delle risorse idriche, l’agricoltura, la salute pubblica, l’inquinamento di aria ed acqua. Ecosistemi naturali e zone costiere sarebbero fortemente compromessi e un protratto intenso riscaldamento al di là del Ventunesimo secolo potrebbe perfino portare a cambiamenti semi-irreversibili del sistema climatico, come lo scioglimento di Groenlandia e Antartico Occidentale (che porterebbe ad un innalzamento del livello del mare di più di 15 metri) o il collasso della circolazione globale oceanica profonda (che risulterebbe nella scomparsa della Corrente del Golfo). Come è accaduto nel passato della storia dell’uomo, il cambiamento della geografia del clima porterebbe anche a esodi massicci di ‘profughi ambientali’.
Un certo grado di cambiamento climatico nelle prossime decadi è inevitabile, dato che le concentrazioni di gas serra in atmosfera sono destinate in ogni caso ad aumentare visto il livello presente di uso di combustibili fossili. Questo richiederà delle politiche di adattamento che ci consentano di rispondere efficacemente ai cambiamenti climatici limitati. Il cuore del dibattito sul riscaldamento globale è però un altro, e cioè come limitare l’aumento delle concentrazioni di gas serra al di sotto di una soglia che non rappresenti un pericolo per il sistema del clima e per la nostra sopravvivenza in questo sistema. Questo richiede delle politiche decise di riduzione di emissioni di gas serra (la cosiddetta ‘mitigazione’). Il Protocollo di Kyoto, che stabilisce una riduzione di emissioni di circa il 5 per cento entro il 2012 rispetto ai valori del 1990, è il primo passo in questa direzione. Tuttavia, i primi risultati non sono incoraggianti: oggi le emissioni di gas serra sono maggiori del più pessimistico scenario elaborato dall’Ipcc nel 2000. La Comunità Europea ha stabilito che una soglia accettabile di riscaldamento globale rispetto ai valori pre-industriali è di 2°C (quindi di circa 1,25°C rispetto a quelli attuali). Questo richiederebbe una stabilizzazione dell’anidride carbonica a valori di 450-500 ppm (parti per milione) rispetto ai circa 380 ppm attuali. E’ quindi evidente che delle politiche di riduzione di emissioni vanno prese urgentemente, anche perché i gas serra che immettiamo oggi in atmosfera vi permarranno per centinaia di anni. La discussione di queste politiche ‘post-Kyoto’ comincerà quest’anno in una Conference of parties (Cop) della United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc) di dicembre a Bali e si baserà sui risultati dell’ultimo rapporto dell’Ipcc. E’ auspicabile che si trovi un accordo per gestire l’inevitabile ed evitare l’ingestibile.

Filippo Giorgi, capo ricerca al Physics of Weather and Climate dell’ICTP di Trieste, unico italiano nel comitato esecutivo dell’Intergovernmental Panel on Climate Change

(Fonte: Left)

 




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