PROGRAMMI
CARTA DELLA TERRA
EDUCAZIONE
ACQUA
ENERGIE
GUERRE
INVIA UN COMMENTO
SEGNALA LA PAGINA
STAMPA LA PAGINA
GREEN CROSS.NET
INDIETRO

 

 

News
 
Mikahil Gorbaciov
Mikahil Gorbaciov
LA GLOBALIZZAZIONE RICHIEDE UN RINNOVAMENTO DELLA CIVILTA’
di Mikahil Gorbaciov

Il fenomeno della globalizzazione continua a suscitare dibattiti animati. Col tempo la discussione si arricchisce sempre più di contenuti e si fa sempre più interessante, benché ci si imbatta ancora, anche oggi, in atteggiamenti manichei: alcuni affermano che la globalizzazione sia il bene assoluto, altri, invece, che si tratti del male assoluto. Ma tanto la cieca esaltazione quanto la negazione indistinta sono controproducenti poiché si tratta di un fenomeno complesso, non univoco e profondamente contraddittorio, gravido di infinite conseguenze, positive e apocalittiche. La discussione è inevitabile.
La cosa più importante, tuttavia, sta nel fatto che la globalizzazione, come indica l’esperienza già acquisita, è un grandissimo fenomeno storico, il risultato inevitabile della storia e, nello stesso tempo, un potente fattore del futuro sviluppo mondiale, seppure non l’unico ed inequivocabile.
Tale fenomeno non solo influenza solo pesantemente il presente, ma grava in modo determinante sul futuro dell’umanità in tutti i suoi aspetti, influisce sul suo destino.



Un fenomeno che ha rivoluzionato la nostra vita
Secondo gli esperti, il termine “globalizzazione” entrò per la prima volta nel lessico scientifico internazionale 21 anni fa, nel 1982, ma il processo definito con questo termine iniziò a svilupparsi attivamente solo a partire dall’ultimo decennio. In questo lasso di tempo, brevissimo in termini di prospettiva storica, nel mondo sono cambiate moltissime cose. Evidenti sono soprattutto le trasformazioni nella sfera economica, dove hanno avuto luogo grandi cambiamenti profondamente positivi per la loro natura intrinseca.
In primo luogo, proprio con la globalizzazione si è accelerata ed ampliata la diffusione nel mondo di nuove conoscenze scientifico-professionali, di esperienze concrete, di tecnologie avanzate, in particolar modo informatiche. Ciò ha reso possibile il miglioramento dei parametri e dell’efficienza della produzione tradizionale, e allo stesso tempo la creazione di nuove sfere produttive “postindustriali”.
Sulla base dei sistemi di telecomunicazione, informatici, di trasporto, della microelettronica e così via, si è andata formando un’infrastruttura tecnica capace di collegare il mondo in un’unica entità economica. Un’infrastruttura storicamente giovanissima, ma che ha già rivoluzionato la nostra vita.
E’ radicalmente cambiata la nostra percezione dello spazio, che ci appare come contratta. Tutte le regioni del mondo sono diventate accessibili, virtualmente in una manciata di secondi, materialmente in alcune ore. E’ cambiata anche la percezione del tempo: le differenze di fuso orario tra i vari paesi non sono più un ostacolo per una comunicazione planetaria senza soluzione di continuità. Tutto ciò ha creato possibilità qualitativamente nuove di sviluppo globale e di contatti proficui tra le popolazioni mondiali.
Ovunque cambiano il tipo e la struttura della produzione, non solo nei paesi con un’economia più matura, ma anche in tutti gli altri, benché, naturalmente, in modo diverso. Negli stati più sviluppati, al primo posto troviamo la creazione e l’impiego di tecnologie sofisticate per le quali le risorse fondamentali sono le conoscenze e l’intelligenza, mentre in molte regioni di quello che chiamavamo Terzo Mondo si diffondono sempre più le produzioni industriali tradizionali trasferite qui dai paesi ad economia postindustriale e, in alcuni casi, anche produzioni moderne ad alto contenuto tecnologico.
In questa prospettiva i rapporti produttivi internazionali ricevono un forte impulso. Il loro tessuto si basa sulle società multinazionali. Questi colossi dell’economia mondiale controllano attualmente oltre la metà di tutta la produzione globale e detengono l’80% dei brevetti e delle licenze per i nuovi impianti, le nuove tecnologie ed il know-how. Nuovi giganti si formano in continuazione in seguito a fusioni tra società ed acquisizioni di alcune società da parte di altre. Nel solo 1999 il totale delle fusioni tra società di diversi paesi e delle aziende locali assorbite da società straniere è ammontato a 720 miliardi di dollari. In un numero sempre crescente di casi si tratta di “matrimoni” transnazionali, ossia della creazione di gruppi industriali multinazionali. Formazioni simili nascevano anche nel passato, ma la dimensione attuale di questo processo ed il ruolo svolto attualmente dai giganti industriali mondiali non hanno precedenti.
Parimenti non è una novità che l’economia mondiale manifesti uno sviluppo anticipato rispetto alla crescita della produzione industriale. Nuovo è il fatto che nella formazione del prodotto interno lordo di molti paesi abbia iniziato a rafforzarsi sensibilmente il ruolo svolto dal commercio estero. Il che significa che lo scambio commerciale internazionale ha un ruolo sempre più consistente di stimolo nella crescita dell’economia mondiale.



La Borsa di Wall Street
La finanza, motore dell’economia mondiale
Tuttavia, il vero motore dell’economia mondiale è diventata la finanza. Alcuni ricercatori affermano che la crescita del peso e dell’influenza del capitale finanziario nel mondo costituiscono la vera e propria rivoluzione dell’ultimo scorcio del XX secolo. L’evoluzione dei rapporti finanziari mondiali, sia sotto forma di transazioni sul mercato valutario sia sotto forma di attività di investimento, è effettivamente senza pari. Nel 1973, i trasferimenti internazionali di capitale ammontavano a 1,3 miliardi di dollari al giorno. Ora superano i 1.500 miliardi di dollari. In altre parole, i trasferimenti internazionali di capitale raggiungono in un mese un volume pari al valore annuale del prodotto interno lordo mondiale.
Nel complesso oggi, all’inizio del terzo millennio, il potenziale creativo dell’umanità ha una crescita senza precedenti. Il mondo già ora ha la possibilità di assicurarsi tutto ciò che gli è indispensabile, e questo nonostante la notevole crescita della popolazione del pianeta. Tuttavia ciò non avviene. Per quanto possa sembrare paradossale, la crescita economica mondiale è decisamente meno significativa di quanto ci si attendeva e si prevedeva. Negli anni Sessanta l’incremento medio annuo del prodotto interno lordo mondiale era pari all’incirca al 5%. Negli anni Ottanta tale incremento si era ridotto al 3,2% e negli anni Novanta all’1,5% annuo. Da questo punto di vista la globalizzazione non ha soddisfatto le aspettative che in essa erano state riposte. Anzi, proprio nell’ultimo periodo si sono verificati cali di produzione significativi: crisi economico-finanziarie hanno colpito il Sud-Est asiatico, la Russia, alcuni paesi dell’America Latina. E per effetto della globalizzazione questi episodi recessivi hanno finito per assumere un carattere internazionale. Perché è successo? Evidentemente nei processi in corso sono entrati in gioco nuovi aspetti, con le loro conseguenze sociali.

 

L'undici settembre

Nulla sarà più come prima
Dopo aver conquistato dapprima la sfera dell’economia, la globalizzazione doveva inevitabilmente cambiare le cose in tutte le altre sfere dell’esistenza umana. Così è avvenuto. Il consesso umano, ovunque nel mondo, è cambiato rispetto a prima. Senza cercare, anche in questo caso, di caratterizzare in modo esaustivo i cambiamenti che si sono verificati, non si può però non richiamarne alcuni importanti aspetti.
Nei paesi industrialmente avanzati i cambiamenti sociali hanno assunto un carattere particolarmente dinamico. Il numero dei lavoratori occupati direttamente nella produzione (soprattutto quella tradizionale) è calato a vantaggio di una rapida crescita del numero dei dipendenti nel settore dei servizi. Diminuisce il numero dei dipendenti che svolgono un lavoro fisico, cresce la quantità delle persone che svolgono un lavoro intellettuale, mentale. Nell’economia postindustriale, sia nella produzione che nel terziario, a operai e impiegati si richiedono nuove qualità: in primo luogo un livello sempre più elevato di istruzione, conoscenze e formazione professionale, e poi una serie di competenze informatiche. Non tutti coloro che compongono il mercato del lavoro sono in grado di soddisfare questi requisiti, da cui il problema sempre più grave della disoccupazione strutturale.
Nel frattempo, l’inasprirsi della concorrenza sul mercato globale costringe le imprese a cercare un rendimento produttivo sempre più alto, accompagnato, quando possibile, da una diminuzione del costo della mano d’opera. Lo “Stato sociale”, che fino a poco tempo fa era uno slogan diffuso e in qualche caso una realtà, sta scomparendo. In altre parole, gli imprenditori cercano, come sempre, di risolvere i propri problemi a scapito di chi lavora. Non è una novità, ma oggi i fabbisogni della gente, sia intellettuali (istruzione), sia materiali sono più forti e il lavoro più intenso richiede un recupero accelerato di forze ed energie. Soddisfare questi fabbisogni è sempre più difficoltoso e dispendioso. Su questo terreno si aggravano le contraddizioni sociali di vecchio stampo e ne sorgono di nuove. I contenuti fondamentali dei conflitti sociali non sono semplicemente l’aumento del reddito, bensì il rispetto dei diritti del lavoratore, la repressione dei tentativi sistematici da parte degli imprenditori e dello Stato di ledere tali diritti, l’accesso a un’istruzione di qualità, una migliore qualità della vita.
La situazione è aggravata dal fatto che in tutti i paesi sviluppati la crescita del numero degli anziani non è compensata da una adeguata natalità. Il capitalismo moderno cerca di risolvere questo problema ricorrendo in maniera massiccia all’importazione di mano d’opera, possibilmente qualificata, ma meno costosa. La situazione esistente nei paesi in via di sviluppo determina una migrazione di massa verso il nord del mondo, dove c’è lavoro e dove le condizioni di vita sono migliori. Il risultato è una sorta di esodo che ha già visto mettersi in cammino decine di milioni di persone.



Il Forum di Porto Alegre

Il pericolo di conflitti interni al mondo globalizzato
In questo modo si risolvono alcuni problemi, ma se ne creano molti di nuovi. Paesi che un tempo erano omogenei dal punto di vista culturale e religioso diventano multiculturali, multietnici, multireligiosi. Nell’Europa occidentale, ad esempio, attualmente vivono già 15 milioni di musulmani. In presenza di disoccupazione, tra la popolazione autoctona si sviluppa un terreno favorevole agli scontri etnici e religiosi, che sempre più spesso affiancano quelli sociali.
In altre parole, nell’ambito del consesso sociale del mondo globalizzato, anche nei paesi più sviluppati si moltiplicano i presupposti per gravi conflitti interni. Alcuni autori, espressione delle posizioni dell’opinione pubblica di sinistra, iniziano già a scrivere che attualmente nel Nord del pianeta si ripresenta, ovviamente in una nuova forma, il clima sociale esplosivo che aveva caratterizzato il XIX secolo. Finora siamo riusciti a farvi fronte, ma con sempre maggior fatica. Tanto più che oggi i protagonisti delle proteste sociali non sono i proletari di due secoli fa, ma una massa di cittadini istruiti ed organizzati con un livello di conoscenze, comprensione e consapevolezza abbastanza alto.
Al Sud la situazione è ancora più grave. Per centinaia di milioni di persone è una situazione di estrema indigenza e disperazione. Ma al di là di questa parte reietta del pianeta, non di rado chiamata il “Quarto Mondo”, anche le altre regioni del Sud, pur tra mille diversità, continuano a soffrire di uno sviluppo insufficiente, di un infimo livello d’istruzione, e delle modalità della loro partecipazione alla divisione mondiale del lavoro, modalità determinate non solo dall’eredità coloniale, ma altresì da una situazione di dipendenza dalle grandi potenze che si è creata proprio a seguito della globalizzazione e sulla base di essa.

Un altro motivo di sofferenza per tutto il Sud, e per molti paesi del Nord, è determinato dai cambiamenti avvenuti nella sfera socio-culturale. Potenzialmente la globalizzazione è in grado di creare straordinarie opportunità di scambio culturale e di informazioni, di reciproco arricchimento delle culture e, su questa base, di sviluppo di un dialogo paritario che conduca all’avvicinamento dei popoli. Finora tuttavia, ha prodotto conseguenze estremamente lontane da questi ideali, o addirittura in profonda contraddizione con essi.



Un peruviano

Salvaguardare l’identità culturale dei popoli
Nel processo di globalizzazione, il problema maggiore è conservare l’identità culturale dei singoli paesi, cioè, in altri termini, salvaguardare l’immenso patrimonio rappresentato dalla varietà culturale dell’umanità. Questa varietà non rientra in alcun modo nel modello attuale di globalizzazione che tende invece alla standardizzazione o, per essere più precisi, all’unificazione dei modelli esistenziali, delle abitudini di consumo, delle esperienze culturali, insomma al livellamento delle condizioni di vita dei diversi popoli. Naturalmente, nessuno propone esplicitamente nulla del genere, ma la realtà stessa dà prova, dell’esistenza di una tendenza in questo senso.

La perdita di molteplicità culturale, la formazione di un modello universale di personalità per il momento non sono ancora realtà. Ma ad esse è legato un altro fenomeno che già si è annunciato: il progressivo abbandono della cultura “alta”, eredità di uno sviluppo plurisecolare, e la sua sostituzione con qualcosa di diverso, un’imitazione priva di un profondo fondamento estetico ed etico. La cultura-surrogato (Ersatzkultur) imposta con film da quattro soldi e programmi televisivi scadenti è uno dei principali strumenti di quell’unificazione del mondo condotta in nome del trionfo delle idee neoliberali. La caduta dei valori morali universali che si osserva ovunque, l’affermazione del culto della violenza nelle sue diverse varianti, costituiscono una minaccia non solo per le generazioni odierne, ma anche per quelle future, per la loro ricchezza spirituale e i loro fondamenti etici.
Tutto ciò è un ulteriore paradosso della storia. Come le più alte realizzazioni della scienza e della tecnica sono troppo spesso richieste per la costruzione di strumenti di sterminio, così le possibilità offerte dalla globalizzazione per la diffusione di alti valori spirituali e dei capolavori della cultura mondiale, troppo spesso diventano strumento di imposizione di pericolosi disvalori.



La globalizzazione rafforza l’interdipendenza
Nelle tendenze di base dello sviluppo mondiale, è del tutto evidente che la globalizzazione determina un progressivo rafforzamento dell’interdipendenza di paesi e popoli. In linea di principio, ciò potrebbe aprire nuove possibilità di coordinamento delle azioni della comunità mondiale per la soluzione dei problemi che si trova ad affrontare, e avviare di un’interazione a livello planetario in nome del bene dell’uomo. Si fa tangibile la prospettiva di passare ad una fase realmente nuova di sviluppo del consesso sociale mondiale.
Che lo si voglia o no, il mondo per molti aspetti già vive come un unico organismo, tenuto insieme da legami finanziari, commerciali, produttivi e psicologico-culturali. Praticamente è già un’unica entità. Ma un’entità prodotta dalla globalizzazione di rapporti sociali di tipo capitalistico. Persino quei paesi che hanno accettato questa dinamica solo in parte si sono trovati immessi nell’orbita di rapporti di quel tipo. Questo processo ha iniziato a evolversi in modo particolarmente veloce dopo il passaggio di tutta l’Europa Orientale e Centrale ad una nuova via di sviluppo.
Ovviamente le forme di questi rapporti hanno una propria specificità geografica. In generale, il capitalismo moderno (come pure l’attuale mercato globale) presenta tratti e peculiarità che sono ben lontani dal ricordare i modelli “classici”. Questo problema attende ancora di essere studiato, ma in generale la globalizzazione e i legami sociali a essa connessi sono diventati la piattaforma dell’attuale fase di creazione dell’unità del mondo, di rafforzamento della sua interdipendenza, e ciò spiega molte caratteristiche di questa fase. Per esempio lo sviluppo estremamente difforme dell’organismo mondiale, sempre più interdipendente. Le differenze di maturità economica, sociale, culturale formatesi tra i paesi, non solo non vengono superate, ma nei secoli anzi, per certi versi, diventano ancora più profonde.
I legami più stretti, gli scambi più intensi nell’ambito della globalizzazione hanno luogo innanzitutto tra i paesi più sviluppati, ossia quei paesi che sono diventati le metropoli dell’economia postindustriale informatizzata. All’inizio degli anni Settanta questi stati indirizzavano circa il 50% delle proprie esportazioni verso paesi con un livello di maturità economica analogo al loro. Verso gli anni Novanta, questa percentuale era già salita all’80%. Anche i flussi degli investimenti si sono evoluti di conseguenza: la presenza dei paesi sviluppati sulla piazza mondiale dei nuovi investimenti sta lievitando, (soprattutto negli ultimi anni); se nel 1997 era pari al 58,9%, nel 1999 aveva già raggiunto il 74,4 %. E questi paesi diventano in qualche modo sempre più autosufficienti.



I tre livelli dell’economia globale

Al contrario, i paesi in via di sviluppo sono collegati tra di loro in misura decisamente minore e i loro legami con i centri industriali del pianeta talvolta ricordano quelli neocoloniali. A volte si afferma che i paesi in via di sviluppo sono in qualche modo esclusi dal processo di globalizzazione. Non è così. Vi prendono parte, ma come oggetto della globalizzazione anziché come soggetto alla pari. Ecco un chiaro esempio: a chi vanno i frutti dell’attuale crescita economica? Secondo i dati a disposizione, solo il 20% della popolazione mondiale ha potuto beneficiare di questi frutti, il 60% non ha quasi notato la crescita, o non l’ha vista del tutto, mentre il restante 20% ne ha avuto una ricaduta negativa, è in qualche modo regredito.
La carta geopolitica del mondo, in trasformazione come ogni altra cosa, riflette chiaramente tale situazione, di cui si danno differenti valutazioni. E’ evidente che oggi si possono individuare, in termini molto generali, tre principali gruppi di stati in funzione non solo del loro livello di sviluppo ma anche del posto che occupano nell’economia globale. Il primo gruppo è costituito dai principali protagonisti dell’economia mondiale, le cosiddette “metropoli” della globalizzazione, cioè i paesi relativamente floridi d’America, Europa, Asia. Qui sono concentrate le “alte tecnologie”, qui si trovano i più grandi centri finanziari del mondo e i principali partner del commercio mondiale.
Il secondo gruppo, spesso chiamato “periferia”, comprende un centinaio di paesi con una popolazione di circa quattro miliardi di persone. Sono i principali fornitori di prodotti energetici e materie prime, e producono una gamma sempre più vasta di manufatti industriali tradizionali (in larga misura produzioni ecologicamente “sporche” trasferite qui dai paesi del primo blocco). Per i paesi del primo gruppo questi stati costituiscono un gigantesco mercato di sbocco.
All’interno di questo secondo gruppo esiste una differenziazione: una quota crescente di paesi che la compongono si colloca sul confine con il primo gruppo (le cosiddette “tigri asiatiche”) mentre gli altri rimangono, sul piano economico, effettivamente alla periferia dei paesi più sviluppati, nonostante alcuni di essi non abbandonino la speranza di entrare a far parte delle “tigri”.
Infine, il terzo gruppo riunisce alcune decine di paesi con una popolazione pari a circa un miliardo di persone e un livello di sviluppo estremamente basso. Il misero tenore di vita, la scarsa istruzione, l’instabilità sociale e politica, la dipendenza dagli aiuti esterni non consente loro di migliorare significativamente la propria situazione.
Un’altra caratteristica del processo di globalizzazione e delle sue conseguenze, caratteristica strettamente correlata a quelle già evidenziate, è la continua, e fino ad ora irreversibile, ridistribuzione della ricchezza mondiale.
Nel complesso, secondo i calcoli di E. Meddison, un’autorità riconosciuta in questo campo, dal 1960 agli inizi degli anni Ottanta la ricchezza mondiale è cresciuta di 7,5 volte. Eppure, nei paesi in via di sviluppo il reddito pro capite non è risultato superiore rispetto a dieci anni fa, e in 20 paesi è diventato addirittura più basso. La conclusione è che il divario tra i paesi industrialmente sviluppati e la maggioranza dei paesi in via di sviluppo, che nel 1960 era di 30:1, all’inizio degli anni Novanta era pari a 74:1. E tale divario sostanzialmente non si è ridotto.


L'acqua nel terzo mondo

La povertà nel mondo ha assunto dimensioni intollerabili
La povertà nel mondo ha assunto dimensioni intollerabili. I dati in proposito sono noti: due miliardi e mezzo di persone vivono con meno di 5 dollari al giorno e un miliardo guadagna meno di un dollaro al giorno. I redditi delle 200 persone più ricche al mondo superano il reddito complessivo di due miliardi di poveri. A tale proposito non si può non fare un’osservazione. Quando si parla di povertà si intendono solitamente i paesi del Sud del mondo e, in genere, si tralascia l’altro aspetto della questione: la povertà esiste anche al Nord, proprio in quel Nord tradizionalmente chiamato il “miliardo d’oro”. Agli inizi del XXI secolo, il, secondo i dati ufficiali, nei paesi dell’OCSE, ossia nei paesi industrialmente avanzati, oltre il 10% della popolazione aveva redditi inferiori alla soglia di povertà. Quindi il “miliardo d’oro” è un luogo comune.
In sostanza, proprio il divario tra povertà e ricchezza risulta essere la più grave contraddizione della comunità umana contemporanea. Di lì deriva una seria minaccia alla sopravvivenza di miliardi di persone e lì si situa l’origine dei conflitti non solo sociali, ma anche politici che affliggono l’umanità di oggi, compreso il terrorismo.

Purtroppo, nell’esame della globalizzazione si incontrano spesso esempi di approccio unilaterale. In alcuni casi, alle prime avvisaglie, si osserva il tentativo di ricondurre tutta la questione alla macchinazione delle varie forze sociali, a un loro “complotto”. In altri casi, altrettanto ingiustificatamente, si mette in rilievo solo l’aspetto oggettivo della questione, si sottolineano solo le eventuali conseguenze della globalizzazione, potenzialmente positive e favorevoli, senza tenere in considerazione il ruolo svolto dal fattore soggettivo e dalle conseguenze della sua azione. Ci pare occorra, invece, vedere entrambi gli aspetti della questione, che interagiscono dialetticamente.
La formazione di un’unica entità mondiale, l’internazionalizzazione della quotidianità dell’uomo, sono un momento organico, un episodio importantissimo di tutta la storia mondiale. L’internazionalizzazione ha proceduto in forme diverse e superato diverse fasi, nel corso di un processo che per propria natura è positivo e portatore di progresso e riflette il bisogno di uno sviluppo sociale in cui gli sforzi isolati dell’umanità si uniscono in nome del suo benessere.
Ma questa tendenza oggettiva, fino ad ora, in tutte le sue fasi, non è stata univoca; spesso si è manifestata in forme snaturate, estranee alla sua essenza. Questo è dipeso, sempre, dal tentativo di determinate forze sociali di strumentalizzare tale tendenza ai propri interessi. In altre parole, il fattore soggettivo ha svolto, e ancora oggi svolge un ruolo estremamente significativo nella definizione delle forme in cui si manifesta l’internazionalizzazione dell’esistenza sociale.
Oggi, sono certi gruppi che rappresentano il capitale internazionale a rappresentare il fattore soggettivo e utilitaristico del processo oggettivamente determinato della globalizzazione. Si tratta in primo luogo del capitale americano, il più potente. Ma non solo: negli ambienti del capitale internazionale la concorrenza esiste e è diventata ora eccezionalmente aspra. Accanto ai motivi e agli obiettivi tradizionali che animano tale competizione, anche il processo di globalizzazione, è stato asservito agli interessi delle varie forze sopranazionali o nazionali.


Il capitale aspira da sempre all’espansione internazionale
In sostanza, l’aspirazione a estendere la propria azione su territori e sfere di attività le più ampie possibili, in ultima analisi l’aspirazione all’espansione internazionale, ha sempre contraddistinto il capitale.Tanto più efficacemente quanto più consistente e influente è il capitale stesso. A tale proposito non si può non ricordare Karl Marx, ora sempre più spesso e ingiustamente lasciato all’oblio: <<La borghesia non può esistere senza provocare continui rivolgimenti negli strumenti di produzione, cioè senza rivoluzionare, i rapporti produttivi e, quindi, tutto l’insieme dei rapporti sociali […] I rivolgimenti incessanti nella produzione, lo sconvolgimento continuo di tutti i rapporti sociali, l’eterna insicurezza e la trasformazione differenziano l’epoca borghese da tutte le altre […] La necessità di avere un mercato di sbocco in continua espansione per i propri prodotti spinge la borghesia a muoversi su tutto il globo terrestre. Deve inserirsi ovunque, ovunque porre le proprie basi, stringere legami. La borghesia, attraverso lo sfruttamento del mercato mondiale, ha reso cosmopolitici la produzione ed il consumo di tutti i paesi […] In sostituzione della vecchia chiusura locale e nazionale e della sussistenza attraverso la propria produzione, si afferma il profondo legame e la reciproca dipendenza delle nazioni” (Marx C., Engels F., Opere, vol. 4, pag. 427-428).
Marx scriveva queste righe oltre centocinquanta anni fa, ma quanto puntualmente vi è descritta la borghesia d’oggi, la sua frenetica attività, l’espansione globale e le conseguenze da essa obiettivamente prodotte! Queste conseguenze, come osserva Marx, non sono univoche. Il capitale di oggi, compreso quello transnazionale, è contemporaneamente il vettore e, in misura significativa, l’elemento di stimolo del progresso tecnico. Grazie alla sua azione si rafforza o si crea ex-novo la struttura produttiva in decine di paesi, milioni di persone lavorano. Nello stesso tempo, però, come abbiamo già sottolineato, si induce un aggravarsi delle contraddizioni sociali e dell’ingiustizia sociale nelle sue differenti forme. Questa è la natura dei rapporti sociali che attualmente prevalgono nel mondo.
Il capitale nazionale, e ancor più quello transnazionale, ha tempestivamente ravvisato nelle attuali realizzazioni del pensiero scientifico e della produzione possibilità assolutamente nuove, che hanno cominciato a essere utilizzate senza indugio. Le tecnologie più sofisticate e l’informatica in pochi anni si sono trasformate in oggetto di primario interesse per le grandi società, soprattutto quelle americane e le multinazionali. Le aziende impegnate in questi settori si sono trasformate in un battibaleno in poli di attrazione di ingenti capitali e i loro fondatori e titolari sono entrati nel gotha dei più ricchi del mondo.



Una libertà di mercato ben poco innovativa
Altrettanto tempestivamente furono individuate le potenzialità sottese ai cambiamenti socio-politici negli anni Ottanta e Novanta, quando si verificò una vasta diffusione dell’economia di mercato. Già verso la fine degli anni Ottanta si iniziò a elaborare nuovi piani strategici per il futuro, di cui la cosiddetta “linea d’intesa” tra il Ministero delle Finanze USA, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale rappresenta uno degli esempi più eclatanti.
Lo slogan su cui usualmente si basavano questi piani era “libertà di mercato”. Per favorire il libero mercato venne lanciata un’ondata di deregulation, liberalizzazione e privatizzazione che praticamente interessò tutto il mondo. Quest’ondata si formò all’interno di singoli paesi (iniziando dagli USA e dall’Inghilterra) ma venne fortemente incentivata dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale ed in seguito dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio.
Veniva proclamata la “libertà di mercato”, ma era una libertà con ben poco di innovativo. Le grandi potenze tendono a reclamare libertà commerciale per i loro gruppi, ma intanto non sempre sono propense ad aprire i propri mercati. Questo è ben risaputo, eppure sarebbe semplicistico affermare che l’attuazione del principio della libertà di mercato non abbia dato alcun frutto: in realtà ha favorito lo sviluppo degli scambi internazionali di merci e servizi, e potrebbe dare di più, soprattutto per i paesi in via di sviluppo, se i grandi protagonisti di questi scambi si comportassero secondo quanto proclamano in linea teorica.
Solitamente gli studiosi del processo di globalizzazione ne sottolineano il carattere spontaneo. Ciò è vero quando si tratta di un processo oggettivo sul cui sviluppo la società non esercita alcun controllo. In questo caso indubbiamente sono presenti elementi di spontaneità, indeterminatezza, imprevedibilità.
Ma le azioni arbitrarie di numerosi gruppi finanziari, i trasferimenti spesso caotici da una parte all’altra del mondo di ingenti somme di denaro in funzione delle oscillazioni della congiuntura nei diversi paesi, determinano una notevole instabilità del mercato, e non solo di quello finanziario. In una certa misura il processo di globalizzazione viene indirizzato, talvolta addirittura regolato, da quelle forze che sono in grado di influenzarlo, vale a dire le società multinazionali e le organizzazioni economiche internazionali che lo orientano secondo il loro interesse.
Anche gli Stati, soprattutto i più potenti, come gli USA, giocano un ruolo preciso da questo punto di vista, ma spesso le regole di comportamento e di azione vengono loro imposte dal mercato mondiale. Questo non significa, naturalmente, che il ruolo dello stato abbia oggi cessato di aver un qualche significato, come a volte si sostiene; al contrario, esso continua a essere significativo, e aumenta quando si tratta di affermare le economie nazionali, di regolamentare il mercato interno, di risolvere i problemi sociali, di garantire la stabilità e la sicurezza. Tuttavia, per qualsiasi singolo stato è difficile influenzare il funzionamento del mercato globale.


Comprendere la globalizzazione per poterla gestire
Dunque, la globalizzazione quale processo storico e oggettivo è un dato di fatto dell’attuale fase della storia dell’umanità. Ignorarla è impossibile, come impossibile è “sottrarsi” ad essa, chiudendosi in una nicchia artificiale.
E’ vero che la globalizzazione oggi porta benefici solo a pochi paesi, anzi solo a una cerchia ristretta di persone in quei pochi paesi. Ma questa non è una caratteristica intrinseca del processo, ma bensì il risultato e la conseguenza dell’uso strumentale che ne viene fatto dalle varie forze. Occorre dunque, in primo luogo, analizzare l’azione svolta da queste forze. Si tratta di valutare come porle sotto un controllo democratico, come utilizzare gli aspetti positivi del processo di globalizzazione e neutralizzare, o almeno minimizzare, le sue conseguenze negative.
Il processo di comprensione della natura della globalizzazione e delle sue conseguenze procede dando non pochi risultati. Negli ultimi 2-3 anni si sono evidenziati sostanziali cambiamenti nelle posizioni sia dei più incondizionati sostenitori della globalizzazione nella sua forma attuale, sia dei suoi più convinti oppositori.
Iniziamo da coloro che a spada tratta acclamano l’attuale globalizzazione: la stragrande maggioranza di costoro è tuttora convinta dell’assoluta utilità della sua versione liberale, però qualcuno ha iniziato ad ammettere che i frutti della globalizzazione vengono oggi distribuiti in modo irregolare e che ciò è pericoloso, con la conclusione che sono necessari mutamenti, e seri.
Inoltre, si constata sempre più spesso che la lotta alla povertà costituisce oggi l’obiettivo numero uno. Questa convinzione ha iniziato a diffondersi con particolare energia dopo gli atti terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Anche i più accesi sostenitori della teoria neoliberale, che imporrebbe di ignorare i bisogni sociali, ora devono riconoscere a malincuore che la povertà crea il terreno da cui trae linfa il terrorismo e che occorre combatterla. Queste e altre tesi simili sono contenute, in particolare, nei documenti della Banca mondiale, della “Commissione tripartita”, del “G8”, e hanno trovato ampia eco nei documenti ONU. Vengono varati specifici programmi di lotta alla povertà e si avanzano proposte concrete, ad esempio per ciò che riguarda la riduzione del debito dei paesi meno sviluppati. Si inizia ad ammettere anche che serve una precisa correzione del processo di globalizzazione per ciò che riguarda le sue conseguenze socio-culturali. E’ interessante, a questo proposito, la posizione espressa dal direttore esecutivo del Forum Economico Mondiale, Claude Smadja, in occasione del convegno del 2001: <<Ci rendiamo conto che la globalizzazione non può essere solo business o rivoluzione. Essa necessita di avere una propria dimensione sociale, collettiva e culturale. Noi abbiamo disatteso questo punto e ne abbiamo avuti segnali di preavviso: continuare a tenere un atteggiamento negligente a tale proposito può ricadere su tutti noi>>.



Il Forum di Porto Alegre

La dimensione sociale della globalizzazione
Purtroppo, tuttavia, tutte le ammissioni, i programmi e le proposte che sono stati presentati, all’apparenza del tutto sensati, si concretizzano con estrema lentezza e solo parzialmente in azioni pratiche. Le conversazioni e i discorsi intelligenti rimangono spesso solo appunti per qualche pubblicazione, mentre le idee concrete affondano nei labirinti del potere dei paesi sviluppati. Un esempio viene dall’ultima conferenza a Monterrey (Messico) dove a lungo e con molta retorica si è discusso dell’aiuto ai paesi in via di sviluppo, mentre la proposta concreta dell’ONU di portare la quota dei contributi allo 0,9% del PIL dei diversi Stati non ha avuto alcun sostegno, soprattutto da parte dell’economia “numero uno”, quella americana.
Tuttavia, i cambiamenti che si verificano nelle opinioni dei sostenitori della globalizzazione liberale sono significativi. Anche i più conservatori tra gli studiosi del fenomeno stanno passando dall’elogio incondizionato a una profonda analisi del suo funzionamento, e dei suoi aspetti positivi e negativi, mentre gli analisti della corrente democratica, in particolare i tecnici dell’area socialdemocratica, concentrano sempre più l’attenzione sulla ricerca di una risposta adeguata alla sfida della globalizzazione, di soluzioni d’azione capaci di conferirle un “volto umano”. Un numero sempre crescente di forum ed organizzazioni internazionali si esprime ora a favore della necessità di intraprendere serie iniziative per avviare un controllo democratico sull’attività delle organizzazioni finanziarie internazionali e garantire una certa governabilità dei processi di globalizzazione iniziando dal movimento di capitali.
Tra le idee che si fanno strada con sempre maggiore insistenza negli ultimi tempi, è anche la necessità di apportare una chiara correzione all’atteggiamento verso il mercato in generale e, di conseguenza, verso quello globale. Il Consiglio per la Cooperazione, che riunisce ex-capi di Stato e di governo di molti paesi del mondo, ha ripreso più di una volta nei propri documenti il tema dei limiti del mercato, che non può e non deve regolare alcune sfere dell’attività umana come la cultura o la salute. I partecipanti al simposio internazionale “Periferia e centro nell’epoca della globalizzazione”, che si è svolto a Genova alla vigilia del “G8”, nella dichiarazione conclusiva hanno scritto: << L’esperienza degli ultimi anni ha evidenziato che il mercato, pur globale, non è in grado di risolvere i problemi esistenti. Occorre integrarlo con provvedimenti che garantiscano, attraverso l’azione degli Stati e della società civile, i fabbisogni sociali e culturali essenziali dell’uomo”.
Anche gli oppositori della globalizzazione nella sua forma attuale col tempo affinano e perfezionano le proprie posizioni. Il movimento di protesta variegato ma di respiro mondiale, che si è originato a Seattle, contro le conseguenze negative della globalizzazione, non è altro che la manifestazione delle contraddizioni interne del processo di globalizzazione. Inizialmente il movimento si definiva “antiglobal”, e molti dei militanti condividevano posizioni di palese negazione del processo di globalizzazione. Ma con il passare del tempo, in seguito a discussioni sia all’interno del movimento sia all’esterno, questa posizione si è evoluta, tanto che ora non si opera più contro la globalizzazione in generale, ma a favore di una sua trasformazione che comporti la correzione delle conseguenze negative. I due Forum mondiali a Porto Alegre (Brasile) che si sono svolti nel 2001 e 2002 hanno concentrato l’attenzione sulla formulazione di proposte concrete e costruttive proprio in questa direzione. Lo slogan di questi forum è stato “Un altro mondo è possibile”. I partecipanti alla quarta sessione ONU dei popoli (2001, Perugia) , invece, al vecchio termine “anti-global” hanno contrapposto il nuovo “new-global”, ossia non contro la globalizzazione ma per una nuova globalizzazione. Con questo nuovo indirizzo il movimento di protesta si sta diffondendo sempre più, fungendo da un lato, da termometro degli umori sociali, dall’altro da laboratorio d’idee che scuotono le menti e suggeriscono gli strumenti umanistici dello sviluppo sociale nella sua fase attuale.



Armi nucleari tattiche

Anche la politica diventa globale
Non abbiamo ancora parlato della politica quale sfera particolare dell’attività umana. Ma è alla politica che la globalizzazione richiede la soluzione dei problemi. Spesso si sente dire che l’epoca attuale è l’epoca dell’economia, la quale detterebbe la sua legge su tutte le altre discipline. Non c’è dubbio che quella economica sia la sfera fondamentale della vita sociale. Ma pur tenendo pienamente conto del significato e del ruolo dell’economia, alla politica deve essere restituito il suo ruolo e il suo posto, poiché essa costituisce quella sfera in cui si elaborano le linee di riferimento per lo sviluppo e si predispongono le basi per la loro realizzazione pratica. Non ci sono dubbi sul fatto che la necessità di garantire la governabilità del processo di globalizzazione presupponga, quale anello indispensabile della catena, la formulazione di una politica globale chiamata a diventare uno degli elementi decisivi o, più precisamente, la forza motrice di questa governabilità.
Ma su questo punto stiamo vivendo una situazione paradossale: oggi ogni Stato, quasi senza eccezioni, è costretto a una politica globale. In virtù dell’interconnessione del mondo moderno non potrebbe essere diversamente: tutti i processi che avvengono sul pianeta sono intrecciati gli uni agli altri in modo tale che uno Stato non può non reagire a tutto ciò che accade. Tanto più che negli ultimi tempi la maggioranza dei governi ha una visione più o meno simile delle minacce e dei pericoli provocati dai processi mondiali. Eppure non si riesce a formulare una posizione comune, spesso nemmeno tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Che cosa lo impedisce?
Naturalmente ogni Stato ha interessi propri e li difende, però, pur nella diversità di questi interessi, ora esistono problemi comuni la cui vastità è più che eloquente. Il mantenimento della pace, la garanzia della sicurezza collettiva, la composizione pacifica delle crisi che si presentano e, dall’altro lato, la soluzione del problema ecologico, la guerra dell’approvvigionamento delle risorse indispensabili, iniziando dall’acqua potabile per finire con i combustibili, sono questioni che riguardano tutti e non possono non essere considerate interesse collettivo di tutta la comunità mondiale. Teoricamente ciò viene in qualche modo riconosciuto, ma anche su queste questioni non si riesce a raggiungere non solo l’unanimità, ma neppure una benché minima comunanza di opinioni necessaria per varare misure concrete volte a risolvere i problemi. Troppo spesso prevale un’interpretazione limitativa dei propri interessi, determinata da un approccio egoistico nella loro definizione. In altre parole, manca la comprensione dello strettissimo legame di correlazione e compenetrazione degli interessi dei singoli Stati con gli interessi della comunità internazionale. Sul breve periodo un tale approccio può dare i suoi frutti, ma alla lunga può portare solo all’insuccesso, al fallimento.
A suo tempo, quando il mondo era sull’orlo della catastrofe nucleare, prima gli studiosi poi i politici riconobbero la minaccia esistente per la sopravvivenza dell’umanità. Oggi i politici l’hanno in qualche modo dimenticato. Ma i pericoli per la sopravvivenza, i pericoli per il futuro genere umano non sono inferiori rispetto a ieri. Per certi versi sono addirittura aumentati. Anche la minaccia nucleare non è cancellata. I timori che vengono espressi sulla futura diffusione delle armi nucleari e del loro impiego (compreso l’impiego a fini terroristici) poggiano su fondamenti sufficientemente seri. Contemporaneamente la dimensione di altre minacce, la minaccia ecologica, la minaccia di diffusione di malattie pericolose (che, tra l’altro, possono diventare un’arma per i terroristi), la mancanza di acqua potabile e così via. Ognuna di queste minacce non solo può manifestarsi in qualsiasi momento, ma può diventare motivo di sanguinosi conflitti.
Il nostro tempo è caratterizzato da situazioni di grave crisi. Non è difficile convincersi che quasi sempre, alla base di drammi e tragedie, ci sono i difetti della politica, la sua incapacità a tener conto delle richieste future e della correlazione dei diversi processi, il suo ritardo nel risolvere i problemi ormai maturi.



Gorbaciov e Veltroni a Roma

Superare la crisi della politica attraverso un’azione comune
Sostanzialmente la nostra è un’epoca di grave crisi della politica. Superarla è possibile, ma solo attraverso un nuovo modo di considerare il passato e il presente, attraverso la formulazione di approcci e soluzioni che tengano conto delle amare lezioni di un tempo che scorre così velocemente.
Per il momento, a giudicare dalle posizioni prevalenti nelle capitali mondiali, questo passo risulta ancora impossibile. Lo impediscono l’inerzia del pensiero, gli stereotipi del comportamento politico che si sono radicati nel corso di decenni, se non di secoli, i residui della “guerra fredda”. Per realizzare una svolta nella politica occorrono leader di nuovo stampo, è necessario un ricambio generazionale spirituale, morale e politico.
Attualmente, il problema della leadership politica è estremamente serio, sia a livello mondiale che nella maggioranza dei Paesi. Oggi leadership è sinonimo di ricerca di vie innovative che tengano conto della nuova condizione della comunità umana e degli esiti della globalizzazione. Tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quelli che allora erano i leader dei grandi Stati seppero capire la necessità di porre fine alla “guerra fredda”, e attraverso grandi mutamenti riuscirono ad avere la meglio sul corso degli eventi che avevano caratterizzato il periodo postbellico. Il lento scivolamento verso la catastrofe si fermò, ma ciò non fu sufficiente a condurre l’umanità su una strada fondamentalmente nuova. Sebbene non mancassero tentativi in questo senso (basti ricordare la “Carta di Parigi per la nuova Europa” del 1990).
Ai leader di oggi chiediamo di smettere di indugiare, di liberarsi dall’eredità del passato per condurre i popoli lungo la via di un’azione comune, l’unica che garantisca la soluzione degli attuali problemi globali di sopravvivenza e prospetti un futuro normale e di pace, e una cooperazione globale. E’ un compito fra i più difficili, ma fattibile.
La nuova leadership deve possedere la conoscenza scientifica dei processi in corso, capire l’essenza del nostro tempo e delle sue sfide. Liberandosi degli strumenti di contesa del passato e unendo gli sforzi è chiamata a formulare una nuova politica veramente globale e umanitaria.
Ciò richiede, in primo luogo, un serio cambiamento del pensiero politico, dell’approccio stesso alla politica. Quanto meno un ritorno al noto principio del liberalismo “Vivi e lascia vivere”. E’ vero che spesso la politica odierna afferma di volere per gli “altri” migliori condizioni di vita. Ma in pratica questo si traduce, troppo spesso, nel tentativo di imporre agli “altri” modelli ed approcci a loro estranei, nel tentativo di controllare, opprimere e, in ultima analisi, dominare. Altro che liberalismo!
La nuova politica oggi necessaria può derivare solo dal rispetto degli interessi e dei bisogni degli “altri”; solo il bilanciamento degli interessi in condizioni di parità di diritti dei partner è in grado di diventare una base affidabile per una politica di sopravvivenza e sviluppo. E ciò presuppone l’esclusione di oppressione e imposizioni e il passaggio alla cooperazione, alla vera partnership, alla solidarietà.



Il palazzo dell' ONU

Per la pace serve l’ONU
Questa nuova politica presuppone anche la ricerca di una via di governabilità democratica dei processi mondiali nell’interesse di tutti. Ciò significa sia il coordinamento volontario delle azioni in nome della soluzione dei problemi comuni (ripeto, con il rispetto incondizionato degli interessi reciproci), sia un uso attivo degli istituti di coordinamento esistenti, cominciando dall’ONU.
Per la pace serve l’ONU. Proprio l’ONU è chiamata a essere l’anello decisivo nell’organizzazione di azioni collettive di dimensione planetaria. Però, occorre cambiare l’atteggiamento nei suoi confronti, assicurarle sostegno e mettere mano, a una sua riforma.
Un nuovo atteggiamento è indispensabile anche nei confronti delle altre organizzazioni internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, e probabilmente si renderà necessaria la creazione di nuove strutture sovranazionali in grado di occuparsi dei maggiori problemi globali. Proposte in tal senso sono state avanzate ma, per ora, senza risultato.
Nel mondo globalizzato di oggi si fa sentire, in modo abbastanza inquietante, la tendenza al regionalismo, che si esprime nella formazione di ampi raggruppamenti economici e politici di Stati, a volte anche anche di dimensioni transcontinentali. In questo fenomeno alcuni intravedono una forma particolare di globalizzazione, altri, una risposta “sui generis” alla globalizzazione stessa. In ogni caso, anche questo è un processo che ha assunto carattere planetario e riflette la multiformità del mondo e dei suoi interessi, perciò la politica globale odierna non può ignorarlo. Ben difficilmente si può garantire la governabilità a livello mondiale senza aumentare il grado di autonomia e di azione dei sistemi regionali. In pratica, questo potrebbe significare il riconoscimento collettivo delle organizzazioni continentali e regionali di sicurezza e cooperazione e della loro responsabilità nella soluzione dei problemi che sorgono nella loro area di competenza. Ovviamente a patto che coordinino strettamente la propria attività, in costante interazione con l’ONU.
Non si può non riconoscere che negli ultimi anni le sollecitazioni a riesaminare criticamente la politica mondiale, tenendo conto di quanto richiede il mondo globalizzato, si fanno sempre più frequenti. Le discussioni sui problemi della politica, nazionale e mondiale, diventano sempre più accese. Ciò riguarda tutti i paesi e tutte le regioni, ed è di per sé un segno positivo. Un ruolo di stimolo da questo punto di vista l’hanno avuto i tragici eventi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. In quell’occasione, l’establishment americano giunse alla conclusione che era necessaria un’azione a livello mondiale, si imponeva un approccio mondiale alla lotta contro il terrorismo. La creazione della coalizione antiterrorismo, con l’attivo sostegno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è un buon esempio di coordinamento delle forze e costituisce la dimostrazione della necessità di formulare e portare avanti una politica globale efficace, oltre che della sua possibilità di realizzazione. Ovviamente, tutto questo presuppone la buona volontà e la disponibilità a cooperare da parte di quanti partecipano alla comunità mondiale.
In verità, negli ultimi tempi vengono espressi timori circa la possibilità che gli Stati Uniti usino la coalizione non tanto per la lotta contro il terrorismo, veramente indispensabile, quanto per rafforzare la propria posizione nel mondo a danno degli altri Paesi. Non di rado, anche da parte degli alleati degli USA, si osserva che usare la situazione nell’interesse unilaterale di Washington è inammissibile. Molti sono turbati dall’intenzione statunitense, espressa con insistenza, di usare la forza contro stati i cui legami con il terrorismo non sono provati, ma che da tempo Washington ha iscritto nel numero dei “nemici dell’America”. La realizzazione di simili intenzioni significherebbe non solo la fine della coalizione antiterrorismo ma anche un peggioramento complessivo della situazione mondiale che recherebbe danno a tutta la comunità umana e agli stessi USA.
Lo stimolo positivo venuto dall’esempio della formazione di questa coalizione non deve inaridire: nel mondo sono tanti i problemi che richiedono gli sforzi congiunti degli Stati. Anche i passi più modesti per il coordinamento di questi sforzi potrebbero avere un effetto tangibile per tutti.



Il Forum di Porto Alegre

Un nuovo protagonista: la società civili mondiale
L’esigenza di un coordinamento di questo tipo e iniziative volte alla sua realizzazione si fanno sentire praticamente in tutte le regioni del mondo. E proprio in questa direzione, circostanza estremamente importante, si moltiplicano gli sforzi di una nuova società civile in formazione, in nome della quale intervengono numerosi movimenti ed organizzazioni non governative. Uno degli esempi più recenti, già citato in precedenza è rappresentato dal vasto raggruppamento di movimenti che si battono per l’umanizzazione della globalizzazione. Con loro, in forme diverse con slogan differenti, si battono organizzazioni per la tutela dei diritti, ecologiche e umanitarie che oggi sono presenti in tutto il mondo.
Il crescente attivismo della società civile mondiale è un fenomeno nuovo della vita politica. Con la sua influenza devono fare i conti, anche se spesso forzatamente, molte strutture statali e l’élite politica di alcuni paesi. E’ chiaro che per ora, tra le posizioni delle organizzazioni della società civile e le posizioni degli ambienti ufficiali governativi, esiste un divario abbastanza ampio.
Tuttavia, è importante e significativo il fatto che negli ultimi tempi, nell’élite di governo e negli ambienti finanziari di alcuni paesi ricchi, inizia a farsi strada la disponibilità a dialogare con le forze e le organizzazioni della società civile che sostengono la necessità di correggere le attuali forme della globalizzazione. Un dialogo di questo tipo può essere produttivo se, naturalmente, da entrambe le parti verrà dimostrata la disponibilità di ascoltarsi vicendevolmente e cercare approcci comuni alla soluzione di problemi riconosciuti ormai da tutti.
In ogni caso è chiaro che la globalizzazione ha portato a notevoli cambiamenti nello schieramento mondiale delle forze politiche. Nel prossimo futuro non sarà più possibile parlare di politica mondiale senza tener conto delle voci di un nuovo protagonista: la società civile mondiale.
Una delle strade concrete per la formazione di una nuova politica mondiale è la creazione di un Forum rappresentativo che raggruppi leader politici autorevoli del passato e del presente, scienziati, imprenditori, intellettuali, compresi i rappresentanti della società civile mondiale e delle sue organizzazioni. Questo Forum potrebbe diventare un luogo per riflessioni comuni, discussioni aperte, ricerca collettiva di soluzioni alle sfide che per il momento sono senza risposta.


La Terra vista dallo spazio

Lo sviluppo accelera: dove e come finirà?
Il genere umano, con la sua varietà, obiettivamente è sempre stato un’unica entità. La natura umana è unica, unico il suo spazio vitale: il pianeta Terra, unico l’ambiente naturale che lo circonda. Per lungo tempo, tuttavia, l’esistenza dell’umanità si è svolta su base locale. Solo in seguito, con l’avvento dell’Età Moderna, si è innescato il processo accelerato di affermazione, della sua unità reale. E solo negli ultimi decenni l’unità del genere umano ha iniziato ad assumere un carattere organico che si è manifestato proprio sotto la forma della globalizzazione.
Per quante difficoltà, persino catastrofi, la globalizzazione possa provocare in questa sua prima fase di sviluppo, potenzialmente essa costituisce un processo unico e positivo, capace di portare alla formazione di un’esistenza comune dell’ Umanità, con un’economia mondiale, un’unica struttura politica e un’unica base culturale, che pure conservi la varietà delle culture dei diversi popoli. Ma per il momento questo costituisce solo una possibile prospettiva futura.
L’attuale flusso di trasformazioni provocate dalla globalizzazione ha coinvolto tutti i popoli e in conclusione ha accelerato lo sviluppo mondiale. Dove andrà e come? Le previsioni a lungo termine sono sempre state una cosa complessa e oggi sono tanto più difficili in quanto troppe sono le incognite, e troppo violenti i cambiamenti in corso. La nostra sostanza bio-psicologica, così come la natura che ci circonda, non possono cambiare con la stessa velocità dell’evoluzione tecnica e tecnologica. Per la prima volta nella storia dell’umanità la capacità di adattamento dell’uomo è risultata inferiore al bisogno di adattamento, imposto dall’opera dell’uomo stesso. Eppure il pensiero umano è capace di superare anche questo ostacolo.
Molte delle previsioni fatte oggi derivano, purtroppo, dalla proiezione nel futuro delle tendenze e dei processi a cui assistiamo ora. Ma la proiezione contiene sempre il pericolo della mera ripetizione di quanto ha già avuto luogo, sebbene enfatizzato o ridimensionato, tende a vedere anche nel domani problemi e contraddizioni che osserviamo oggi. In secondo luogo, e questa è la cosa più importante, la proiezione non permette di prepararsi e orientarsi verso ciò che di nuovo si manifesterà, inevitabilmente, nello sviluppo della società.
E’ fuori dubbio che gli anni e i decenni a venire ci porteranno molte novità e queste novità non saranno univoche. Insomma, il futuro avrà inevitabilmente molte versioni. Tutto dipenderà da come l’Umanità utilizzerà le proprie possibilità. Sarà pronta a rispondere alle sfide modificando il proprio comportamento e adattando le proprie azioni, oppure sarà incapace di realizzare il cambiamento, assolutamente necessario, del paradigma del suo sviluppo?
L’umanità ha creato un enorme potenziale economico e tecnico-scientifico, ha accumulato un bagaglio di conoscenze ed esperienze ignote in passato, ed è ora in grado di compiere un salto veramente rivoluzionario verso un nuovo livello di benessere e di sviluppo culturale del genere umano. Per il momento il potenziale accumulato non assicura un progresso corrispondente alla sua entità. Inoltre, nel ricchissimo mondo contemporaneo trovano posto la povertà, l’incertezza, l’arretratezza culturale di intere regioni. Questo significa che l’attuale paradigma di sviluppo, con le sue forme ereditate dal passato, le strutture e le dinamiche che ha prodotto è irrimediabilmente invecchiato.



Un generatore eolico

Umanizzare la globalizzazione
Se non verrà modificato, il futuro potrà essere piuttosto cupo. Le contraddizioni si moltiplicano in tutti i settori: economico, sociale, spirituale. E’ difficile immaginarsi che ciò non provocherà grandi e pericolose esplosioni sociali e politiche. Già molti non sono più disposti a tollerare lo stato attuale e si formano i presupposti per conflitti tra le forze sociali, tra gli stati, tra le civiltà. Si capisce già abbastanza chiaramente che gli inevitabili tentativi di risolvere questi conflitti ricorrendo alla forza provocheranno solo nuove tragedie, poiché essi non sono in grado di rimuovere e superare le contraddizioni.
Gli avvenimenti degli ultimi tempi, il terrorismo, la situazione senza via d’uscita in Estremo Oriente, sconvolgimenti economici come quello avvenuto in Argentina, mostrano che si sta sviluppando un processo di trasformazione delle contraddizioni e delle situazioni di conflitto in antagonismi gravidi di esplosioni imprevedibili. Il pericolo è reale. A questo aggiungiamo che il conflitto tra Uomo e natura si sta avvicinando alla linea rossa: la natura non è più in grado di compensare con le proprie forze il danno che l’attività umana le arreca. L’epoca della “conquista” della natura, della sua trasformazione nell’interesse dell’Uomo sta finendo. Ora si tratta di far sì che l’Uomo si adatti alla natura per non distruggerla e, nello stesso tempo, distruggere se stesso. Anche qui si impone una modifica del paradigma. Nel complesso è evidente che la comunità umana si è avvicinata al limite in cui è necessario, assolutamente necessario, operare una scelta: o si continua a seguire la vecchia via che conduce alla catastrofe universale, oppure ci si avvia risolutamente sulla via che porta a una nuova civiltà veramente umanistica globale.
Non servono nuove utopie. Un futuro radioso può essere raggiunto solo perseguendo il rinnovamento dell’attività umana in tutti i campi. Sostanzialmente si sa già cosa occorre cambiare e come. Questa consapevolezza va progressivamente maturando, ma serve un salto di qualità. E’ necessario ritornare ai valori umani fondamentali, le cui basi sono state formulate da tutte le religioni del mondo e dalle opere dei grandi esponenti del pensiero umano.
In sostanza, questa è la richiesta principale che il processo di globalizzazione rivolge all’umanità. Umanizzare la globalizzazione è il primissimo presupposto per incamminarsi su una nuova via più favorevole e proficua per tutto il genere umano.

Mikhail Gorbaciov


© The Gorbachev Foundation

 
Indietro
Torna su