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L'imballo nemico
Rifiuti urbani in una discarica


Sugli imballaggi delle merci e sulla loro destinazione dopo l'utilizzo si discute da anni ma le discariche si trovano sempre più vicine al collasso e mentre si aprono orizzonti, molto teorici, sul riciclaggio, l'applicazione delle più elementari regole di riciclo stentano a decollare.

Oggi, in Italia, mentre non si riesce a riciclare in maniera efficiente e a livello di massa materiali semplici come la carta e il vetro, per non parlare delle plastiche si parla di introdurre in commercio imballaggi ad alta tecnologia che promettono cose mirabolanti.

Barattoli che cambiano temperatura, bottiglie che si autoriducono, e scatole frigorifero che servono il vino freddo sono solo alcune delle novità che le nuove frontiere del packaging marketing ci offriranno in un futuro prossimo.
Già perché di marketing si tratta. L'intenzione, neppure troppo velata è quella di aumentare il consumo dei prodotti, probabilmente di fascia alta, attraverso contenitori che abbiano come servizio aggiuntivo l'interazione con il consumatore e l'ambiente.
Se da un lato l'idea di aggiungere un indicatore visibile ed oggettivo dello stato di conservazione di un cibo può essere utile per determinate categorie di beni come i farmaci, utilizzare contenitori che mutano le condizioni del prodotto in relazione ad una presunta comodità del consumatore appare una vera e propria follia.

Oggetti come confezioni che hanno piccoli schermi pubblicitari oppure emettono profumi per invogliare l'acquisto, o nuovi inchiostri che possono interagire con il consumatore lanciandogli messaggi per gli acquisti, hanno un peso molto grande sul fronte dell'impronta ecologica e dell'impatto ambientale.
Aumentare la complessità degli imballi, introducendo elementi tecnologici avanzati, rappresenta , infatti, un grande dispendio sul fronte energetico e delle risorse. Pianificare la costruzione di questi dispositivi di consumo, una bottiglia di plastica vive la breve vita del consumo della bibita che contiene, con risorse high tech degne di una nave spaziale è un doppio danno all'ambiente.

In primo luogo si impiegano energia e materie prime per dare delle caratteristiche voluttuarie ad oggetti che non ne hanno assolutamente bisogno. In seconda battuta si rende impossibile qualsiasi forma di riciclaggio.

L'utilizzo, ad esempio, di nanotecnologie per creare circuiti digitali in polimeri il cui scopo è quello di permettere al carrello della spesa o al frigorifero di interagire con il prodotto, finisce con il produrre un rifiuto praticamente non riciclabile.

Più i materiali, infatti, sono complessi nei loro componenti e nella loro costituzione più è difficoltoso il loro recupero.

Lo sa bene chi tenta di riciclare il tetrapak del latte Uht, vera bestia nera tra i rifiuti di oggi, che con la sua composizione a triplo strato differenziato, carta-alluminio-plastica, resiste a qualsiasi tentativo di smaltimento sostenibile. Così come i colori diversi del PET, per intenderci le comuni bottiglie di plastica delle acque minerali, sono tra gli ostacoli più grossi per ottenere un prodotto riciclato commercialmente appetibile.

Se questioni di così poco conto, come quelle descritte, influiscono in maniera determinante sui tentativi di riciclaggio possiamo immaginare cosa può succedere in imballi che hanno al loro interno fonti d'energia chimica, chip in silicio, schermi a cristalli liquidi e sistemi di trasmissione di dati, il tutto per essere utilizzati e successivamente finire la loro gloriosa carriera high tech in una discarica indifferenziata.

La questione è, in realtà, sempre la stessa: il mancato inserimento nei costi di produzione all'origine del prodotto dei costi di smaltimento dello stesso.
Mancando questo quadro di riferimento tutto il bilancio economico-ambientale sulla produzione di oggetti, ad iniziare da quelli "durevoli" per finire a quelli di consumo, è irrimediabilmente sbilanciato a favore del produttore che ha in sostanza carta bianca nella produzione ed è libero di produrre imponendo il costo della produzione alla società.

Incorporare il costo dello smaltimento nei primi step dei processi produttivi, eliminandolo da quelli a carico del cittadino, non comporta di un ostacolo al libero mercato ma, molto più semplicemente, di un riequilibrio dei flussi economici a favore del riciclaggio.
In questa maniera, infatti, si premierebbero i prodotti più virtuosi sul fronte ambientale che avrebbero una competitività maggiore ed un più alto apprezzamento del pubblico, innescando fenomeni di sviluppo del consumo più sostenibili.
La ricetta è semplice: premiare chi contribuisce alla salvaguardia dell'ambiente con produzioni a basso impatto e lasciare che sia il mercato a decidere delle sorti degli altri prodotti.

Sergio Ferraris



 

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