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Nablus |  | Un
giorno di ordinaria Palestina Una
testimonianaza dal campo: cronaca di un viaggionel tentativo di portare aiuti
alla popolazione civile palestinese.
di Carla Benelli
Carissimi tutti,
sono le 17 e sono appena rientrata da Nablus. Siamo partiti alle cinque di questa
mattina, 12 ONG internazionali d'aiuto umanitario (tra cui tre italiane, il CISS
di Palermo, il GVC di Bologna e Movimondo di Roma) con tre camion d'alimenti e
medicinali. Un funzionario del consolato francese ci ha accompagnato garantendoci
una parziale copertura diplomatica. Da ieri l'esercito israeliano era stato
informato che avremmo tentato di far valere le convenzioni internazionali, per
accedere alla zona di Nablus a soccorrere la popolazione civile. Con noi sono
partiti anche molti giornalisti. I blocchi
Alle otto siamo riusciti a superare il primo posto di blocco, appena fuori Gerusalemme.
Lungo la strada per Nablus (quella che fanno i coloni ovviamente, di passare per
i villaggi palestinesi neanche a parlarne perché sono tutti sigillati)
non si vede neanche una macchina, solo veicoli dell'esercito e autobus blindati
dei coloni. Di palestinesi neanche l'ombra. Alle 10 siamo sotto Nablus.
La trattativa per entrare è estenuante. A renderla ancora più drammatica
le urla dei coloni, dell'insediamento vicino al posto di blocco, che ci gridano
"assassini". Una signora anziana, colona, si avvicina urlandoci di andare
via. "Scusi ma lei dov'è nata?" "In Russia"
"E i palestinesi di Nablus dove sono nati?" "Studiate la storia,
dovete studiare la storia, questa terra è nostra, da sempre, l'ha data
a noi Dio". La signora è stata allontanata dai soldati.
L'entrata Finalmente ci hanno dato l'autorizzazione
ad entrare, però da soli, senza giornalisti. Ad esser sinceri non ci sembrava
vero, davvero possiamo entrare? Prima solo i camion e due macchine, noi insistiamo
che vogliamo andare tutti. Ci lasciano entrare tutti, tranne i giornalisti.
L'ingresso a Nablus è l'ingresso all'inferno. Le strade sono state divelte
dai bulldozer e dai carri armati. Al centro grandi buche per raggiungere le condotte
dell'acqua e l'elettricità e tagliarle. Tutte le macchine, che erano parcheggiate
lungo i marciapiedi, sono state schiacciate contro i muri e le saracinesche dei
negozi, che in gran parte sono state fatte saltare. Passiamo una moschea rasa
al suolo. Le tapparelle abbassate delle case cominciano ad alzarsi, le persone
si sporgono e ci salutano. Siamo i primi civili ad entrare da quando è
iniziata l'occupazione. Il coprifuoco è totale, da cinque giorni. Ci salutano,
qualcuno ai piani bassi osa uscire e correrci incontro. Le donne chiedono cibo
piangendo. L'ospedale Dopo aver
passato il cimitero, neanche quello risparmiato dai carri armati, arriviamo all'ospedale
della Red Crescent che è il nostro obiettivo. Ci accolgono, prima
con sorpresa poi con gioia. Raccontano che il vero problema è il coprifuoco.
Ad oggi hanno raccolto 51 morti per le strade ma tutte le volte che escono gli
sparano addosso. Anche quando hanno l'autorizzazione dell'esercito israeliano.
Non sanno quanti morti ci sono ancora soprattutto nelle case, per non parlare
dei feriti. Ma anche i malati non possono muoversi. Sono preoccupati per quelli
che hanno bisogno di dialisi. Ci raccontano che hanno trasformato la moschea centrale
della città in ospedale da campo, ma il problema ora è raggiungerla
e rifornirla. Nel frattempo in città vecchia riprendono gli scontri. Noi
siamo a circa un chilometro di distanza, si vede il fumo, si sente l'artiglieria.
Non si ha idea di cosa succeda davvero li dentro, di quanta gente stia combattendo,
di cosa succeda nelle case. Il peggioramento
Non possiamo aspettare oltre. La situazione sta peggiorando e noi dobbiamo tornare
indietro. Gli elicotteri cominciano a sorvolare la città, si teme un bombardamento.
Cominciamo a scaricare i camion, a mano. In tutto siamo una trentina di persone
e ci vuole più di un'ora. Siamo qui noi delle ONG, senza giubbotti
anti proiettile, senza passaporto diplomatico, con le nostre jeep con targa israeliana.
Abbiamo portato briciole ad una città di 200 mila abitanti assediati. Sento
tutto il peso della nostra inutilità eppure, dopo giorni di frustrazione,
sono felice di scaricare riso e zucchero. All'uscita si ripassano i luoghi
sconvolti, i ricordi della bella città adagiata sui due fianchi della valle,
dell'antica Neapolis dal meraviglioso centro storico, si confrontano con la devastazione
d'oggi. Rispondiamo ai saluti dei bimbi dalle finestre. I soldati israeliani
del primo blocco neanche ci fermano. Al secondo ci chiedono se abbiamo avuto problemi.
Nessuno, a parte la nostra coscienza. All'arrivo a Gerusalemme siamo in ogni
caso contenti e ci lasciamo con una promessa, si rifà appena possibile,
a Betlemme e Jenin. Carla Benelli
La
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