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Pecoraro Scanio
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Al Gore

Appello di Gore alle nazioni: “Anticipare il Kyoto bis al 2010”


Il mondo non può aspettare il 2012 per stringere i rubinetti dei gas serra. Occorre anticipare di due anni la seconda fase del Protocollo di Kyoto, facendola partire già dal 2010. E’ questo l’appello lanciato da Al Gore a Bali, dove i negoziatori di oltre 180 nazioni stanno faticosamente cercando di gettare le basi per un nuovo accordo che consenta di rendere più stringenti i limiti imposti alle emissioni che alterano il clima, imponendo dei vincoli anche ai paesi in via di sviluppo come Cina, India e Brasile che oggi aderiscono al patto ma senza subirne le imposizioni. L’ex vicepresidente statunitense, vincitore del premio Nobel per la Pace in virtù delle sue campagne contro il riscaldamento globale, ha chiesto ai partecipanti alla Conferenza di avviare le trattative per elaborare un accordo post-Kyoto, da definire entro il 2009 per poi ratificarlo nei successivi tre anni, prima che l’attuale Protocollo scada. “Io spero - ha dichiarato Gore - che i governi anticiperanno la data del nuovo Protocollo di due anni, in modo da non attendere sino al 2012 per vedere applicato un trattato più rigido”. Per quanto auspicabile, l’ipotesi lanciata da Gore al momento appare poco credibile. Le trattative procedono infatti con grande cautela e lentezza, accompagnate dalla diffusione di dati sulle difficoltà che il pur blando Protocollo di Kyoto attualmente in vigore incontra per essere rispettato. Difficoltà che dipendono innanzitutto dalla volontà politica, come dimostra il caso italiano. A ribadire la nostra pessima pagella è il rapporto ‘2008 climate change performance index’ presentato a Bali da Germanwatch e Can-Europe, due associazioni che con il contributo economico del governo federale tedesco hanno elaborato questo indice indipendente per misurare l’adesione dei vari paesi agli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto. Stando alla ricerca, solo agli Stati Uniti (che però non hanno ratificato il trattato) e il Canada fanno peggio di noi. Nella costituzione dell’indice complessivo concorrono tre diversi parametri: gli attuali livelli di emissione (30% del peso complessivo), i trend di emissione (50%) e le politiche climatiche adottate (20%). La struttura dell’indice tende, pertanto, a premiare soprattutto i paesi che dimostrano un’effettiva volontà di cambiamento, in linea con l’obiettivo dello studio di essere uno strumento di pressione politica e sociale per quei paesi che ritardano ad attuare efficaci iniziative in termini di protezione climatica. Anche il giudizio complessivo dell’indice, non solo quello sulle politiche climatiche, evidenzia una situazione negativa per l’Italia che, tra i 56 stati valutati (i principali produttori mondiali di gas serra), si posiziona al 41° posto, dietro a Cina, Polonia e Bielorussia. Rispetto al Ccpi pubblicato lo scorso anno, l’Italia perde inoltre altre sei posizioni. Secondo il ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio, la colpa è dei “ritardi accumulati negli anni scorsi” che impediscono una “svolta sulle energie pulite e rinnovabili, il solare in particolar modo”, mentre sull’efficienza energetica, il cambio di rotta avviato “con la scorsa Finanziaria è ancora troppo debole e deve essere potenziato”. Il paese con la migliore prestazione, che non ottiene comunque ancora il giudizio “molto buono”, è la Svezia, seguita da Germania, Islanda, Messico e India. Ciò dimostra come le politiche climatiche dei principali paesi emergenti quali Cina, India e Messico siano radicalmente cambiate rispetto allo scorso rapporto, arrivando oggi ad essere valutate nettamente meglio di quella italiana. Una tendenza che diversi studi hanno già iniziato a registrare. (Fonte: La Repubblica.it)

 

 

 

 

 

 


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