Worldwatch Institute
Prefazione

Nell'ottobre 2004, quando il Nobel per la Pace è stato assegnato all'attivista ambientalista Wangari Maathai, in alcuni ambienti la decisione del Comitato svedese è stata salutata con disappunto. Molti specialisti della sicurezza intesa in senso tradizionale hanno ritenuto frivolo che, in tempi di conflitti armati, guerre civili, terrorismo e minacce di proliferazione nucleare, questo ambitissimo riconoscimento internazionale fosse attribuito a una persona impegnata nella messa a dimora di alberi invece che nella firma di accordi. Un politico di primo piano della Norvegia (che sponsorizza il Premio Nobel) ha commentato: "È curioso che il Comitato abbia completamente ignorato la situazione in cui versa il resto del mondo, dando il suo Premio a un'ambientalista."1
Secondo noi il Nobel non sarebbe potuto andare in mani migliori. La biografia di Wangari Maathai testimonia come l'insicurezza nella quale si dibatte il mondo d'oggi sia inestricabilmente legata ai problemi ecologici e sociali alla cui soluzione Maathai ha dedicato la propria vita, fondando nel 1977 il Green Belt Movement e organizzando le donne più povere nella messa a dimora di milioni di alberi: tra gli obiettivi di Green Belt riforestare territori impoveriti, soddisfare il disperato bisogno di legna da ardere per cucinare e migliorare, grazie alla partecipazione diretta, le condizioni di vita delle donne e delle loro famiglie.
Il successo di Maathai e la sfida - che ne conseguì immediatamente - al governo e alle sue politiche conservazioniste la mise in diretto conflitto con l'autocratico presidente keniota. Lei e le sue prime compagne furono picchiate e incarcerate; ma, col tempo, in Kenya e nel resto del mondo il movimento crebbe fino a comprendere migliaia di persone. La società civile aveva trovato un riferimento in Wangari Maathai, aprendo nel 2003 la strada alla transizione pacifica da una dittatura virtuale a un governo eletto. Protagonista della svolta storica, oggi Maathai siede nel parlamento keniota e fa parte del nuovo governo con un incarico al ministero per l'ambiente.
Casualmente, l'annuncio dell'assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2004 è arrivato proprio mentre, a Washington, stavamo licenziando lo State of the World 2005, edizione del ventiduesimo anno e prima a centrare l'attenzione sulla sicurezza globale, argomento, negli ultimi anni, di ogni discussione pubblica o privata.

Ammiratori da molti anni del Green Belt Movement, i miei colleghi e io siamo stati rincuorati dal Nobel a Wangari Maathai e rafforzati nella speranza che ciò aiuti a convincere milioni di persone in tutto il mondo che la sicurezza globale non può dipendere solo dalle capacità diplomatiche o dalla forza militare.
Il filo rosso delle pagine che seguono è la radice profonda dell'insicurezza, che spesso affonda nella destabilizzazione delle società umane e della natura, fenomeno che negli ultimi decenni ha accompagnato la crescita esplosiva della popolazione e della domanda di energia. Basandoci sulle varie competenze e punti di vista del nostro gruppo di lavoro nonché su una vasta rete di collaboratori di ogni parte del mondo abbiamo cercato di sciogliere i nodi, intricati e nascosti, che legano fenomeni diversi come abbassamento delle falde acquifere, diffusione dell'AIDS, criminalità transnazionale, rifugiati ambientali, terrorismo e mutamento climatico. Strada facendo abbiamo trovato ottime ragioni per temere che la profonda insicurezza che attanaglia il mondo da almeno tre anni possa, negli anni a venire, diventare ancor più profonda.
Una forza destabilizzante sono le disuguaglianze demografiche. Come scrivono Lisa Mastny e Richard Cincotta nel secondo capitolo, in circa un terzo dei paesi del mondo (quasi tutti in Africa, Medio Oriente e Asia meridionale e centrale) i numerosissimi adolescenti hanno prospettive economiche limitate e, spesso, poca o nessuna istruzione. Quasi tutte le guerre civili, l'emigrazione e il terrorismo nascono in queste parti del mondo, molto spesso acuite da differenze etniche e religiose e dal collasso dei sistemi sociali ed ecologici da cui dipende la popolazione.
In gran parte di questi paesi la diffusione di malattie infettive, in particolare l'AIDS, contribuisce a disgregare il tessuto sociale uccidendo le generazioni più giovani, che dovrebbero invece contribuire al progresso economico e politico delle loro nazioni. Un altro fattore di rischio per molte strutture sociali è la crescente pressione umana sulle risorse naturali, che - per non fare che due esempi - stermina il patrimonio ittico e prosciuga i fiumi. L'ultima crisi umanitaria a conquistare le prime pagine dei giornali nel 2004 è stata nel Darfur, in Sudan, dove i violentissimi scontri tra nomadi arabi e africani stanziali sono stati in realtà preceduti da anni di desertificazione, costringendo chi viveva di pastorizia a spingersi a sud in cerca di pascoli e acuendo così tensioni sfociate in conflitto aperto, nella cacciata a forza degli abitanti dei villaggi e, infine, nel genocidio.
Un'altra causa d'instabilità che recentemente si è imposta all'attenzione mondiale è l'accesso al petrolio, il cui clamoroso aumento di prezzo (oltre 50 dollari al barile nell'autunno 2004) ha coinciso con la crescente instabilità nel Golfo Persico, in cui si trovano i giacimenti più abbondanti. L'industria petrolifera è talmente predominante, in Medio Oriente, da mettere in crisi lo sviluppo economico e politico della regione; la valanga di petrodollari in circolazione ha accentuato le disuguaglianze economiche e finanziato l'insorgere del terrorismo. La dipendenza di Stati Uniti ed Europa dal petrolio ha generato flussi economici distorti e pesanti investimenti militari, creando profondo scontento in entrambe le parti. Nei prossimi dieci anni la produzione mondiale di petrolio avrà un forte calo, proprio quando grandi nazioni come Cina e India inizieranno a reclamare per sé le scorte rimanenti: dovrebbe essere una ragione sufficiente per preoccuparsi, anche senza la crisi causata dall'invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti. Tutto ciò costituisce una santabarbara mondiale.
La possibilità di mutamenti climatici devastanti, inoltre, è una minaccia ancor più grande per la sicurezza di tutti. Tra i molti segnali di accelerazione del riscaldamento globale - dal rapido scioglimento dei ghiacci artici alla diffusione di malattie ed epidemie in nuovi territori - l'attenzione degli scienziati è centrata sul potenziale collasso in tempi brevi di ecosistemi economicamente essenziali come foreste, riserve idriche sotterranee e zone costiere irrigue. I quattro uragani che hanno devastato la Florida nel 2004 (fenomeno senza precedenti) e l'inaudito numero di tifoni che ha investito il Giappone hanno portato i meteorologi a considerare la possibilità che eventi climatici catastrofici possano presto diventare la norma, con conseguenze incalcolabili per l'umanità, specie nei paesi più poveri. Nell'ottobre 2004, il rapporto di una serie di agenzie di aiuto allo sviluppo e all'ambiente ha messo in guardia sul fatto che il peggioramento del clima potrà comportare l'aumento della povertà. I mutamenti climatici, inondando vaste aree costiere e deteriorando foreste e bacini idrografici, accentueranno la corsa all'accaparramento delle risorse naturali.2
Una tragica conseguenza degli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 è aver pesantemente distolto l'attenzione, a livello mondiale, alle molte cause sottese dell'insicurezza. Gli aiuti ai paesi più poveri sono cresciuti poco o nulla e l'impegno internazionale verso problemi come l'AIDS e il riscaldamento globale è assolutamente a corto di fondi. Inoltre, con gli Stati Uniti e vari paesi europei un tempo alleati e oggi ai ferri corti su molti temi, non rischiamo solo di perdere la lotta al terrorismo in senso stretto quanto di innescare una serie di ulteriori instabilità che potrebbero far entrare il mondo intero in un perverso circolo vizioso.

Con questo libro vogliamo spezzare quel circolo e dare vita a una cooperazione internazionale, indispensabile al raggiungimento di un mondo più sicuro. Come Wangari Maathai pianta alberi per migliorare la sicurezza economica del suo popolo, così è tempo di piantare semi di speranza lavorando fianco a fianco per raggiungere obiettivi fondamentali: una minor dipendenza delle fonti energetiche dal petrolio, una società più equa in cui il ruolo delle donne sia rafforzato, un regno della natura stabile e produttivo. I nostri autori dimostrano la necessità di politiche della sicurezza davvero forti, che uniscano strategie tradizionali (come disarmo, peacekeeping e prevenzione dei conflitti) a un serio impegno nei confronti di salute, istruzione e conservazione degli ecosistemi.
Non a caso l'introduzione dell'edizione 2005 dello State of the World è di un altro premio Nobel, ex presidente dell'Unione Sovietica e oggi a capo di Green Cross International, Mikhail Gorbachev, che giocò un ruolo di primo piano nella conclusione della guerra fredda, ultima grande sfida alla sicurezza del ventesimo secolo, e che da una decina d'anni dedica gran parte della propria energia ad affrontare la grande, nuova sfida del ventunesimo: la creazione di un mondo ambientalmente sostenibile.
Wangari Maathai e Mikhail Gorbatchev sono canali di comunicazione tra il tema dell'ambiente e quello della sicurezza. Il futuro di tutti noi sarà determinato, in larga misura, dalla rapidità con cui il mondo seguirà il loro esempio.


Cristopher Flavin
Presidente del Worldwatch Institute

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